Il 4 maggio 2022 a Napoli si è realizzato un sogno: la squadra partenopea si laureava Campione d’Italia dopo un’attesa lunga 33 anni.
Un anno dopo i sogni hanno lasciato spazio agli incubi: al termine di una stagione disastrosa, con ben 3 cambi di allenatore in panchina, i partenopei hanno chiuso al 10° posto in classifica, per la prima volta fuori dalle coppe europee negli ultimi 14 anni.
In tutto questi gli uomini simbolo del trionfo tricolore, da Osimhen a Kvaratskhelia passando per il capitano Di Lorenzo, sembrano tutti intenzionati a lasciare l’ombra del Vesuvio per cercare successi altrove.
Come si è arrivati da un successo festeggiato da ogni dove come un capolavoro di gestione sportiva ed economica ad una tale debacle su tutti i fronti?
Sic transit gloria mundi: l’ascesa e la caduta di Aurelio De Laurentiis
“[…] E sul piedistallo, queste parole cesellate:
Percy Bysshe Shelley, “Ozymandias”, 1818
«Il mio nome è Ozymandias, re di tutti i re,
Ammirate, Voi Potenti, la mia opera e disperate!»
Null’altro rimane. Intorno alle rovine
Di quel rudere colossale, spoglie e sterminate,
Le piatte sabbie solitarie si estendono oltre confine”.
Le ultime parole del poema Ozymandias, di Percy Bysshe Shelley, ci offrono un’immagine che si può adattare alla situazione attuale del Napoli di De Laurentiis: i resti di un’opera maestosa abbandonati nella sabbia, in uno stato di rovina che stride con i proclami di imperitura gloria ancora scolpiti nella roccia.
Aurelio De Laurentiis, novello Ozymandias, si è intestato personalmente la maggior parte dei meriti della vittoria del 2022. Nei suoi pensieri, riflessi dalle sue azioni, lui, e soltanto lui, era il demiurgo di quello splendido Napoli che dominò la Serie A dall’inizio alla fine.
Vero è che De Laurentiis ha preso una squadra fallita, relegata alla Serie C, e l’ha portata a competere in Italia e in Europa. Un vero e proprio capolavoro gestionale, di cui però De Laurentiis si è convinto di essere, se non proprio l’unico responsabile, l’uomo cardine attorno a cui ha gravitato tutto.
Uno sfoggio di arroganza, o meglio di ciò che nel teatro greco si definiva hybris, quell’eccessiva spavalderia che inevitabilmente porta l’uomo a pensare di confrontarsi con gli dei e andare incontro così alla sua inevitabile tragedia.
Così per De Laurentiis non era più indispensabile Luciano Spalletti, l’allenatore che aveva costruito quella macchina di gioco perfetta capace di vincere e dare spettacolo in Italia come in Europa.
Non era più indispensabile Cristiano Giuntoli, il dirigente che dietro le quinte aveva portato a Napoli i vari Di Lorenzo, Meret, Kvaratskhelia, Kim, etc. etc., ogni anno riducendo il monte ingaggi e chiudendo cessioni sempre redditizie per il club.
D’altra parte, è anche vero che tutti sono importanti e nessuno è indispensabile, e che per quanto i meriti di Spalletti e Giuntoli fossero stati enormi, si sarebbero potuti sostituire entrambi.
Sostituirli contemporaneamente però è un discorso diverso: un direttore sportivo dalla posizione solida può aiutare la fase di ambientamento di un nuovo tecnico e aiutarlo a costruire la squadra di cui ha bisogno, così come un tecnico che ha in mano lo spogliatoio da tempo può riuscire a sopperire all’assenza e al primo periodo di assestamento di un direttore sportivo.
Quando entrambi queste figure sono assenti, è essenziale che altre figure all’interno della società operino al meglio. Ed è qui che De Laurentiis è stato colto da una sorta di delirio di onnipotenza.
Gli errori di De Laurentiis nella gestione di allenatore e direttore sportivo
Affermando di avere una lista di quasi 50 possibili candidati per la panchina del Napoli indirettamente minava la posizione del nuovo tecnico: se uno vale l’altro, nessuno è speciale e nessuno ha meriti particolari.
La scelta di Rudi Garcia ha esplicitato questo pensiero: un allenatore che in carriera ha raggiunto buoni risultati, ma non un tecnico vincente preso per cercare di bissare immediatamente i successi ottenuti, e nemmeno un profilo dalle idee innovative sui cui impostare un progetto a medio-lungo termine. L’idea era chiaramente che con la rosa a disposizione sarebbe bastato un profilo in grado di gestire lo spogliatoio, cosa che peraltro non è nemmeno riuscita a Garcia, forse perché la sua figura era già sminuita da questo atteggiamento del presidente.
Le successive scelte, da Walter Mazzarri rispolverato dopo anni in cui era lontano dal calcio di vertice a Francesco Calzona chiamato solo perché negli staff di Spalletti e di Sarri, hanno contribuito a minare l’autorità della figura dell’allenatore.
Nel frattempo al posto di Giuntoli è stato assunto Maurizio Meluso, dirigente di esperienza nelle serie minori ma che non si era mai misurato con realtà di spessore superiore a Lecce o Spezia. Un profilo che non si è mai distinto nel corso della stagione in un contesto che non era chiaramente il suo: giocatori internazionali pagati un’enormità come Lindstrom o che ben poco hanno dato alla causa come Dendoncker e Traoré, mentre ha operato bene nell’ottica di valorizzare i giovani della rosa come Gaetano, Zanoli o Zerbin. Se doveva essere la figura che doveva andare in aiuto al tecnico nella gestione della rosa, è stata sicuramente una scelta poco centrata.
Da Kim a Kvaratskhelia: la fuga dei campioni
Che il Napoli non fosse diventato improvvisamente un club dell’élite europea, dal punto di vista finanziario, era chiaro anche dopo la vittoria dello scudetto. Ma con l’impennata di valore della rosa ed i proventi derivati dalla buonissima campagna di Champions League, il margine per operare in maniera oculata e rinforzarsi c’era.
La cessione di Kim Min-Jae al Bayern Monaco è apparsa da subito come un sacrificio necessario, ma nel momento in cui si cede un giocatore tanto importante bisogna avere le idee chiare su come sostituirlo fin da subito. L’assenza di un direttore sportivo ha sicuramente pesato sul mancato arrivo di un sostituto all’altezza in difesa: il brasiliano Natan può essere considerato al massimo un discreto investimento in prospettiva, di certo non un titolare in una squadra a livello europeo.
Inoltre la decisione di tenere a tutti i costi Victor Osimhen anche a costo di accordargli un rinnovo del contratto completamente fuori scala avrà sicuramente avuto alcune ripercussioni sugli equilibri della squadra. Il bomber nigeriano si è visto riconoscere un ingaggio di ben 10 milioni a stagione, quasi tre volte tanto il secondo giocatore più pagato della rosa (Piotr Zielinski, con 3,5 milioni). Una mossa praticamente necessaria per non metterlo immediatamente sul mercato e cercare quindi di guadagnare il massimo possibile da una successiva cessione forti di un contratto pluriennale.
Ma la stagione deludente a livelli di risultati, con la mancata qualificazione alle coppe europee, ha di fatto abbattuto la quotazione di Osimhen, che è rimasta praticamente uguale a quella dell’anno scorso, e reso questo stipendio difficilmente sostenibile.
Ma se la cessione del bomber nigeriano è praticamente una necessità, altri giocatori si sono resi conto che dal punto di vista sportivo sarà molto difficile riuscire ad ottenere più dello scudetto del 2022 e hanno iniziato a guardarsi intorno, attirati da migliori prospettive economiche e sportive.
Ecco quindi che Piotr Zielinski, in scadenza di contratto, si trasferirà a parametro zero all’Inter, mentre il capitano Giovanni Di Lorenzo, scottato dalle contestazioni ricevute dai tifosi che qualche mese prima lo idolatravano, ha chiesto la cessione tentato dalla prospettiva di raggiungere Giuntoli alla Juventus.
E anche dall’entourage di Kvaratskhelia, l’altro grande talento offensivo, sono ora arrivate dichiarazioni che fanno da preludio ad una cessione, nonostante la ferma presa di posizione del Napoli.
De Laurentiis si fa forte di un contratto in scadenza nel 2027, ma mentre rinnovava e ritoccava i contratti dei giocatori più vicini alla scadenza ha lasciato lo stipendio del giocatore migliore della rosa (soprattutto in vista della cessione di Osimhen) ai livelli di una riserva (solo Meret guadagna meno di lui tra i titolari). Ora il georgiano, sul quale si sono accesi i riflettori di squadre che lottano da protagoniste in Champions League come il PSG, pretende un adeguamento di contratto da top player, ma il Napoli deve anche fare fronte ai mancati incassi dalle coppe europee che erodono inevitabilmente il budget da destinare al monte ingaggi.