La modernità si nutre di un paradosso: più la religione in senso istituzionale si eclissa, più nuovi dèi sorgono all’orizzonte.
Galeano diceva che «il calcio è l’unica religione che non ha atei», e c’è da credergli. Soprattutto quando vediamo giocare Mourad Meghni. Basta farsi un rapido giro su YouTube per rendersi conto di come sul talento algerino sopravviva una cerchia aurorale – per non dire proprio religiosa – di fedeli.
Un campioncino a Bologna
“The biggest loss in the history of football”, “le magicien perdu”, “l’ancien prodige algerien”, sono solo alcune delle formule utilizzate per introdurre nuovi adepti al culto di Meghni.
Come altri straordinari talenti venuti prima (Ben Arfa) e dopo (Gourcuff) di lui, Meghni non ha beneficiato del paragone senza termini di paragone: quello con Zinedine Zidane.
«Prima io, poi Ben Arfa e Gourcuff. Quel paragone è stato un danno per tutti. Una volta che hai quell’etichetta, non te la leva più nessuno».
Anche Meghni, come Zizou, ha origini algerine (per parte di padre), e anche lui, come ZZ, è cresciuto calcisticamente a Clairefontaine – sorta di academy per i talenti puri, spesso inespressi, del calcio francese.
Quando arriva al Bologna non è ancora maggiorenne. È il 2002 e il nuovo secolo, oltre al cambio della moneta, porta con sé anche domande esistenziali di un certo peso, del tipo: perché Meghni, descritto da mezza Europa (e qualcosa di più) come il nuovo crack del calcio francese, viene acquistato dal Bologna?
È una domanda destinata a restare senza risposta, perché l’inizio di Meghni in terra emiliana è a dir poco succulento.
Dopo aver vinto il campionato con gli Allievi del Bologna e il Mondiale U19 con la Francia, in patria si chiedevano come mai i migliori talenti della nazionale dei galletti andassero all’estero: «L’affare Meghni imbarazza il calcio francese», titolava L’Equipe.
Addirittura su Le Monde, in quel periodo, era uscita una lista della spesa coi talenti francesi più promettenti e insieme emigranti: Nicolas Anelka, Florent Sinama-Pongolle, Anthony Le Tallec e, appunto, Mourad Meghni.
Per gli amici, o meglio per Signori, Mulan. Proprio non riusciva a pronunciarlo quel nome, il bomber ex Lazio. O forse, più semplicemente, seguiva l’esempio del compagno di squadra algerino: decideva di non impegnarsi (a pronunciarlo correttamente). Questa è infatti forse la caratteristica più facilmente distinguibile di Meghni già dai primi tempi bolognesi: il suo calcio è memorabile non perché efficace, ma perché scenico.
I suoi movimenti non rispondono alle logiche di un calciatore professionista ma a quelle di un talento voluto da Dio. Non a caso Mourad in arabo significa “desiderato”, “voluto”.
La sua leggerezza e la sua tranquillità, già lombrosianamente scolpite sul volto di eterno ragazzo, si manifestano nelle interviste come in campo, quando riceve il pallone e il pallone si impossessa di lui. Non però, sia chiaro, con l’agonismo degli spiritati, ma con la dolcezza dei mistici.
Al primo anno con Guidolin in panchina segna un paio di gol. Il primo a Como in una sconfitta terrificante del Bologna (5-1 per i lombardi), il secondo a San Siro con un bel destro a giro (3-1 per i rossoneri). In entrambe le circostanze, dall’esultanza traspare una maturità inattesa e inconsueta per la reale età del ragazzo (18 anni).
Le braccia lunghe e stanche, la maglietta troppo lunga infilata con indolenza nei pantaloni, quel leggero ingobbimento di chi quasi si vergogna d’aver segnato un gol in Serie A, raccontano il Meghni calciatore: un ragazzo d’oro con una tecnica sopra le righe, che voleva semplicemente giocare a calcio e divertirsi.
«Da piccoli impazzivamo per le reti delle porte italiane. Erano particolari, non so spiegarlo, e quando le vedemmo da vicino fu un’emozione unica». Probabilmente Meghni si riferisce alle reti più “molli” e “larghe” presenti sui campi di Serie A – il Dall’Ara di quegli anni è un esempio, ma lo è anche l’Olimpico di Roma, l’altro stadio che lo incoronerà Re senza reame.
Lampi di piccolo Zizou in maglia laziale
Le Petit Zidane, lo chiamavano. Mentre però ai tempi del Bologna e poi del Socheaux – quando la dotta sprofonda in Serie B – il nomignolo è ancora foriero di dolci speranze, alla Lazio già iniziano ad usarlo per deriderlo. La sua condizione di piccolo Zidane quasi si tramuta in quella di piccolo Principe, tanto elegante, leggero, da dubitare della sua esistenza. Da un punto di vista statistico, Meghni in qualche modo è stata un’apparizione.
Un’esperienza momentanea, meglio istantanea; il suo calcio è ricordo di attimi, non di stagioni. Gioca poco e spesso si fa male, abbinando così all’indolenza tipica dei grandi talenti l’altra terribile caratteristica che li accomuna tutti: la fragilità fisica. In tutta la sua carriera Meghni ha giocato 201 partite. Più della metà non dal primo minuto.
Eppure rimangono degli attimi, appunto. Dei momenti indimenticabili. Il gol col Como e quello a San Siro, la doppietta alla Roma che costerà il posto a Voller, l’incredibile giocata contro il Werder Brema in Champions League con la maglia della Lazio (da lui definita la miglior partita della sua carriera), le provocatorie skills messe in mostra con la nazionale algerina – quella che suo zio gli fece amare, soprattutto dopo averlo imbottato di video e racconti di un certo Rafik Saifi, calciatore algerino folle e incredibilmente tecnico.
Inserito nel 2001 da Don Balon tra i giocatori più promettenti del mondo, in ottima compagnia con Robben, Ibra, Maicon, Fernando Torres e Kakà, appena otto anni dopo, nel 2009 quando lascia la Lazio, è già un giocatore a fine carriera (nonostante abbia appena 25 anni).
Andrà in Qatar, dove gioca pochissimo. Di lui si perdono quasi del tutto le tracce quando torna a casa, a Champs sur Marne, per iniziare la carriera nel Futsal.
Alcuni video ne testimoniano l’inesorabile ma ormai completo declino. Se già a 11 giocava spesso da fermo – salvo poi accelerare improvvisamente dopo una giocata da urlo – a 5 si limita a passare il pallone, suolare il suolabile e bucare le gambe degli avversari con un solo tocco di palla.
Non gli basta, chiaramente. A 31 anni gli arriva l’offerta del Constantine, una squadra di calcio a 11 algerina. Accetta e viene coperto dall’affetto dei tifosi.
Si ritrova con in mano un mazzo di fiori. Intorno al collo una sciarpa della tifoseria locale. Qui sanno ancora chi è Mourad Meghni. Lo sa però anche il suo corpo, che lo costringe al ritiro dopo due anni. Oggi gioca nel Val de France insieme ad alcuni amici. Il figlio milita nella U11 del club.
Mourad si preoccupa soltanto di una cosa: assicurarsi che si diverta giocando a pallone.