Con un comunicato che definire gelido è dir poco, la F.C. Juventus ha ufficializzato l’esonero di Massimiliano Allegri con effetto immediato. Non sono noti i dettagli circa eventuali transazioni economiche, ma in questa sede ci interessa più un altro argomento: cosa lascia Allegri, alla Juve e al calcio italiano. O meglio, come si è evoluto – o involuto – il personaggio.
Massimiliano Allegri e il dibattito sul gioco in Italia
La più importante eredità lasciata da Massimiliano Allegri è quella sul piano comunicativo, dove purtroppo ha incarnato e continua ad incarnare un forte arretramento nel dibattito. La diatriba ormai diffusissima seppur logora fin dall’inizio, quella tra giochisti e risultatisti, nasce da lui e da un suo classico argomento-fantoccio. In più di un’intervista, Allegri ha espresso il concetto “preferisco giocare bene e vincere, anziché essere bellini e perdere”. Un’opposizione del tutto inventata, creata ad arte con l’obiettivo di perorare la propria causa-convenienza. Purtroppo, si tratta di una semplificazione-banalizzazione che fa molta presa perché polarizza, e tutto ciò che è polarizzante viene cavalcato senza troppi scrupoli da gran parte dei media, molto più interessati all’engagement che a convogliare dibattiti utili.
Non esiste nessuna legge fisica, biologica, psicologica o calcistica per cui la vittoria sia qualcosa in antitesi a un’identità di gioco, o per cui la vittoria sia sempre e comunque una spugna che lava via ogni bruttezza vissuta dagli spettatori per 90 minuti più recupero.
Così, in questa ipersemplificazione, ogni idea di calcio propositivo viene ammantata di una valenza circense e fine a se stessa, cercando di deviare il traffico verso il culto monoteistico del risultato come unica religione possibile.
Questa ipersemplificazione marcata, rimarcata e sottolineata a più riprese, ha creato un gigantesco reset nell’opinione pubblica, in particolare tra gli stessi juventini.
Massimiliano Allegri è riuscito a convincere molti sostenitori bianconeri che non possa esistere una Juve diversa da quella allegriana e ostinatamente risultatista. Niente di più falso.
Giusto per fare qualche esempio, la Juve di Lippi e quella di Conte vincevano perché azzannavano le partite e gli avversari, davano il 200% sul campo ed è quello che i tifosi apprezzavano, non le finezze tattiche su costruzione dal basso, riaggressione, pressione intermedia eccetera. Soprattutto, lo facevano con grandissima intensità, che è la vera cifra distintiva tra il calcio contemporaneo e quello di Allegri.
L’intensità, la grande assente
La Juventus del primo Allegri aveva una cifra tecnica ancora nettamente superiore alla media europea, dunque poteva permettersi di gestire le partite in attesa di trovare la chiave per risolverle, oppure andare in vantaggio e addormentare-gestire a piacimento. Un’idea un po’ sparagnina, ma possibile con un organico di grande livello, soprattutto in Italia. In Europa si ricordano non più di tre-quattro grandi partite della Juventus di Allegri, quasi sempre quando era spalle al muro. Questo era il difetto che Cristiano Ronaldo lamentava e che era stata una delle ragioni del tentativo – velleitario e poco convinto – di cambiare guida tecnica.
Quando la disastrosa gestione del biennio Sarri-Pirlo, che pure aveva portato in dote uno scudetto, una Coppa Italia e una Supercoppa Italiana, ha convinto Andrea Agnelli di fare inversione a 180 gradi, si è creata quella spaccatura che ha portato a tre anni incredibilmente surreali e, infine, all’attuale esonero. Da un lato c’era la sconfessione di un progetto senza una reale piattaforma tecnica e umana per crearne uno nuovo, dall’altro si andava all-in sul vecchio tecnico, che nel frattempo era stato fermo per due anni.
I primi tempi dell’Allegri-bis li ricordiamo tutti, con la gestione sbagliata delle sostituzioni nelle prime partite, perché nel frattempo i cambi erano diventati 5 e non più 3. Un dettaglio per certi versi trascurabile, che però lasciava trapelare il sospetto che, nel frattempo, Max Allegri non avesse perso il sonno per aggiornarsi. Dopo pochi mesi, i sospetti sono diventati certezze: quella allegriana era una vera e propria restaurazione: si torna a fare a modo mio, e pazienza se nel frattempo il calcio è cambiato nei ritmi e nelle dinamiche, prima che nelle tattiche.
La Juventus inizia a patire i ritmi alti tenuti da quasi tutte le avversarie, italiane ed europee. In molte occasioni la spunta per la qualità media dell’organico, in altre meno. A questo, aggiungiamo la fisiologica fine della leggendaria BBC e dunque la fine di molte delle certezze difensive che Conte prima e lo stesso Allegri poi avevano sapientemente costruito.
L’equivoco-CR7 produce poi un finale pessimo, frettoloso, inadeguato. La Juve perde la sua superstella e non si straccia nemmeno troppo le vesti per questo, ma la vera tragedia è che non riesce a sostituirlo. Per farlo, si riprende in tutta fretta Moise Kean, pagandolo una cifra che lasciava molti dubbi e che, nonostante un paio di partite positive nel triennio, il ragazzo ha purtroppo confermato non valere.
Allegri il parafulmine di una società che non c’era
In tutto questo, non va dimenticato un altro aspetto. Il super contratto con cui è stato richiamato Massimiliano Allegri ne ha fatto automaticamente anche un parafulmine piuttosto comodo. In fin dei conti, quale senso può avere pagare 7 (+2) milioni di euro l’anno per 4 anni a un allenatore che nel 2019 avevi esonerato perché sembrava aver esaurito il suo compito? Quello di ricostruire? Allegri ha sempre dimostrato di essere un abilissimo gestore, mentre non lo si è mai visto fare “rebuilding”. E, infatti, in questo triennio ha palesato evidenti difficoltà. La Juventus, tuttavia, aveva ben altre grane da risolvere, oltre a una sorta di lotta intestina alla stessa famiglia Agnelli-Elkann, che forse non è ancora conclusa.
In questo triennio, Allegri ha dovuto fare sempre buon viso a tutte le esigenze societarie. Al suo ritorno, il tecnico livornese ha trovato un organico superpagato e male assemblato. Rabiot e Ramsey non li aveva voluti lui, il giga-scambio Artur-Pjanic non lo aveva voluto lui, e così lo scambio Spinazzola–Pellegrini. Forse non sarebbe stato favorevole nemmeno alle cessioni di Emre Can e Romero, così come ha dovuto accettare quella obbligata di de Ligt al Bayern l’anno seguente. L’assenza di Beppe Marotta aveva tolto quel tocco magico nella capacità di scovare giocatori funzionali, e in queste situazioni uno con l’imprinting ostentatamente “pane e salame” non sguazza proprio nel suo mare.
E poi, la perenne sofferenza di bilancio iniziata con l’operazione Ronaldo e peggiorata con il Covid ha reso molto più difficile allestire una rosa adeguata agli obiettivi. A ciò si aggiungono i numerosi infortuni, tra cui quello di Federico Chiesa.
Detto questo, la società prova ad accontentare l’allenatore. Nel 2021/22 arrivano Manuel Locatelli in estate e Dusan Vlahovic a gennaio, colpaccio che fa sognare i tifosi. Certo va via Ronaldo, che peraltro Allegri non avrebbe voluto rivederlo nemmeno in fotografia. Il problema è che viene sostituito con la pesantissima cambiale di Moise Kean. Si chiude l’anno con “zero tituli” per la prima volta dal 2010/11.
Nel 2022/23, la società accontenta Allegri in tutti i suoi desiderata. Arrivano Leandro Paredes per il centrocampo e “El Fideo” Di Maria per cesellare in attacco. Arriva anche Kostic per i cross e Milik come alternativa in attacco. E poi, dulcis in fundo, c’è il ritorno del figliol prodigo Paul Pogba. Il risultato è un’accozzaglia che fatica tremendamente a comportarsi da squadra, un gruppo che si rende autore del peggior girone di Champions League nella storia del club (1 vittoria e 5 sconfitte, tra cui quella con il Maccabi Haifa).
Alla confusione tattica (coabitazione di Chiesa e Di Maria) e di gestione del gruppo (Pogba e Paredes fanno ombra ad altri giovani in rampa di lancio come Fagioli, Rovella e Miretti) si aggiungono le vicende societarie che vengono fuori verso fine anno. A inizio 2023 inizia il valzer delle penalizzazioni, un balletto che va avanti per mesi e che ovviamente non può che destabilizzare l’ambiente.
In tutto questo, va riconosciuto a Max Allegri di essere sempre stato il frontman unico di una società quasi fantasma, con il management azzerato dal procedimento giudiziario per plusvalenze e manovra stipendi. A fine anno, nonostante tutto, la squadra sarebbe riuscita a terminare al secondo posto, ma la penalizzazione definitiva di 10 punti la fa retrocedere al 7° posto, cui poi si aggiunge l’esclusione della UEFA per una stagione. Comunque la si pensi su tutte queste vicende extra-campo, e nonostante una campagna di rafforzamento sbagliata anche per le sue scelte, la seconda stagione dell’Allegri-bis non poteva che andare in archivio con tutte le attenuanti del mondo.
Cosa c’era di sbagliato in questa Juve di Allegri
Nel 2023/24, la Juve si affaccia al campionato in una strana atmosfera. L’assenza di impegni europei è senza dubbio un vantaggio in ottica scudetto, ma c’è un’identità tecnica da ritrovare e un mercato praticamente inesistente (il solo Tim Weah). Tuttavia, l’organico non può che lasciare intendere un campionato di vertice: Bremer e Danilo in difesa, Chiesa e Vlahovic davanti e un Rabiot in mezzo che forse è l’unico giocatore che può dirsi valorizzato da questa seconda esperienza di Allegri alla Juve, insieme a Cambiaso. Ma il francese non è un cucitore di gioco, è un incursore che funziona “a strappi”, come la maggior parte dei giocatori di qualità di questa Juve. Che gioca quasi costantemente sotto ritmo, dunque non mettendo quasi mai i suoi elementi migliori nelle condizioni di potersi esprimere al meglio.
- Chiesa non riceve mai palla sulla corsa, situazione in cui diventa devastante.
- Vlahovic passa una larghissima parte di match spalle alla porta e lontano dall’area. Basta osservare le situazioni da cui sono arrivati i suoi 18 gol stagionali.
- Locatelli, che aveva conquistato tutti al Sassuolo da mezzala con licenza di inserimento, viene utilizzato da medianaccio frangiflutti.
La squadra arretra il baricentro quasi in maniera inconsapevole, ritrova le certezze solo quando fa blocco unico dietro la linea della palla, ma così facendo si costringe molto spesso a ripartenze lunghe, mentre diversi elementi (Rabiot, McKennie, Cambiaso e lo stesso Kostic, oltre al già citato Chiesa) avrebbero ottime caratteristiche in transizione. Ne conseguono spartiti di match in cui la Juve accetta di subire l’iniziativa anche da squadre di basso rango, proprio perché la situazione in cui trova certezze è quella di chiudersi e incassare come un pugile che si rifugia nel clinch e imbastisce tutte le sue tattiche partendo da lì.
Dopo un girone di andata con tanti punti conquistati, senza quasi mai convincere sul piano della manovra ma con buona compattezza e una ritrovata solidità mentale e difensiva, la squadra si scioglie letteralmente al KO con l’Inter.
La bolla comunicativa di Max Allegri
In assenza della società, Max Allegri si è sostenuto lungo tutta questa stagione grazie anche a una stampa che non gli è mai stata nemica. Poche o zero le domande scomode, a cui peraltro il tecnico livornese è sempre stato molto restio a rispondere, quando non apertamente scortese. Si guardi cosa è successo con Gianfranco Teotino un mese fa, con il “faccia domande più intelligenti” e il “voi non dovete capire”. Un crescendo di arroganza e anche maleducazione, che oggi si può leggere (mai giustificare) con la consapevolezza che la società lo aveva già di fatto scaricato.
Le stampelle in suo soccorso non sono comunque mai mancate, dai soliti opinionisti pronti a mettere in campo tutta l’ars oratoria per attenuare i giudizi sulle prestazioni sempre più sconcertanti della squadra, all’immancabile intervista a Giovanni Galeone in cui il vecchio vate spiega quanto il suo ex allievo sia un incompreso.
Anche qui, la scelta di Allegri e della sua fazione è stata chiara: polarizzare il più possibile, portare l’argomento sempre più verso il “con me o contro di me”. Così si deviano domande scomode su una condotta di squadra ampiamente deficitaria e sull’assenza di piani alternativi.
Il lascito ultimo di Allegri: le macerie
Tutto questo non può in alcun modo essere attenuante per il peggior girone di ritorno della Juventus nell’era dei tre punti. Non può, anche senza guardare al monte stipendi che sappiamo essere altissimo perché l’organico è stato sovrastimato non quest’anno, ma nel corso degli ultimi anni. Di tutto questo, Allegri ha la sua parte di responsabilità per i giocatori che ha scelto e che non è stato in grado di valorizzare. Non ha invece responsabilità su altro.
Nell’ultimo atto della sua esperienza bianconera, invece, le responsabilità sono tutte sue. Il classico cerimoniale da lancio della giacca , con la variante aggiuntiva del lancio di cravatta, è categorizzabile come folklore, una sorta di liturgia laica a cui ci ha abituati Acciughina, un po’ spontaneo sfogo di adrenalina un po’ come branding del suo personaggio. Un personaggio che, però, è decisamente uscito fuori controllo. Il plateale gesto contro un suo superiore (quale è Cristiano Giuntoli) sa di premeditato, di vendetta cucinata e attesa ma sfogata nel momento e nel modo peggiore. Se pure si prova a immedesimarsi nell’uomo lasciato solo, con tutta la retorica possibile ad accompagnarlo, non si può trovare nessun appiglio per definire quella scena qualcosa di diverso da quella che era: pietosa.
La Juve sarà chiamata a una ricostruzione già difficile e su cui questi ultimi eventi non potranno che aumentare pressione e aspettative. La dirigenza della Vecchia Signora dovrà tornare a mostrarsi autorevole, decidendo di sposare un progetto e appoggiandolo in ogni sua componente, tempistiche comprese. Ma tutta quella parte di ambiente bianconero oggi contagiata da un sentimento di smarrimento e di identità perduta, dovrebbe ricordare che esisteva una Juve prima di Allegri. E ne esisteranno altre dopo. Più o meno belle, più o meno vincenti.
Tornando a lui, a Massimiliano Allegri da Coteto, se esisteva un modo peggiore per chiudere l’esperienza di uno degli allenatori più vincenti nella storia bianconera, non riesco a trovarlo. E in tutta onestà, pur sapendo che la società tende a fagocitare e dimenticare un po’ tutto, fatico a pensare come un personaggio fuori controllo così, che ha scelto continuare a polarizzare l’attenzione su di sé fino all’estremo, possa trovare presto un nuovo club disposto a dargli fiducia.