Cos’è il genio, se non questa frase di Bill Shankly?
Così, quel meraviglioso allenatore per quindici anni padrone di Liverpool ed Anfield, parlava ai suoi attaccanti. In area, il gol era l’ultimo e unico scopo; tutto ciò che non era un pallone dormiente tra i due pali, non gli interessava.
Figuriamoci poi sui rigori: necessariamente, la storia doveva ripetersi. Con più responsabilità, con più pressione, con tutto da perdere. Tu contro il portiere. E il portiere contro di te. Non c’è più nulla: è il gol o il vuoto. O l’errore, o il nulla.
Acclarato tutto ciò, viaggiamo a ritroso verso la Coppa America del 1999. L’Argentina, sorteggiata nel gruppo C con la Colombia, l’Ecuador e l’Uruguay, arrivava in Paraguay, sede del torneo, con Marcelo Bielsa in panchina ma anche con calciatori del calibro di Zanetti, Simeone, del Burrito Ortega.
Quindi Martin Palermo a tessere le redini in avanti. L’obiettivo era chiaro: ripetere l’ultimo successo dell’Albiceleste, la Copa disputata nel 1993. Il risultato: a casa ai quarti, contro il Brasile, dopo essere arrivati secondi nel gruppo. Eppure la storia iniziò bene, con un trionfo sull’Ecuador per 3-1 con gol di Simeone e di Palermo.
Il quattro luglio, ecco la Colombia: nella prima avevano battuto l’Uruguay, e all’Estadio Feliciano Caceres le aspirazioni delle altre selezioni erano già speranze perdute.
Chi è Martin Palermo
Alt. Passo indietro decisamente utile. Prima di raccontare una delle storie più assurde del calcio, vi parliamo – brevemente – dell’incredibile protagonista.
A La Plata, nel 1973, nacque un vero e proprio eroe argentino: cresciuto nell’Estudiantes, a 24 anni la grande chance con il Boca Juniors. 91 reti in 102 presenze rendono l’attaccante un eroe totale alla Bombonera, dalla quale fatica a separarsi nonostante chiamate e occasioni, carezze e contratti da calcio europeo.
In realtà, un turning point, la vita glielo concede: nel 1999, la Lazio pronta per lo scudetto lo vuole come centravanti di durezza e fantasia. Poco prima di arrivare a Roma, Martin – nato da una famiglia siciliana – si rompe i legamenti del ginocchio e saluta a malincuore tutti i sogni d’un soffio irrealizzati.
L’occasione europea arriverà comunque, seppur due anni più tardi: il Villarreal non si cura dei frequenti stop e lo incorona uomo della risalita. 18 reti in due stagioni condite da un altro infortunio molto sfortunato (si rompe tibia e perone a seguito del crollo di un muretto esultando con i suoi tifosi).
Quindi la fallimentare esperienza al Betis e sei mesi all’Alavés che sembrano aumentare l’agonia finale. L’unica strada percorribile era il ritorno, per quello che rappresentava, per quello che era stato. Per tutto quello che sarà: perché negli ultimi, incredibili, intensissimi sette anni al Boca, ne mette altri 113 in oltre 200 gettoni. Entrando definitivamente nella storia e nei cuori del popolo Xeneizes: che non dimentica, che non lo fa mai.
La serata maledetta
E chi se la scorda, poi, quella sera del ’99.
Appena cinque minuti dopo il fischio d’inizio, arrivò il primo dei cinque rigori che il paraguaiano Ubaldo Aquino avrebbe fischiato. Martin Palermo si preparò in mezzo secondo nell’area piccola, ad anticiparlo sullo spiovente da sinistra solo la mano di Alexander Viveros: penalty netto, con Martin fisso sul dischetto.
Bomba centrale e alta, colpo potentissimo che andò a colpire tutto trovando il nulla. La palla toccò la traversa nella sua parte alta, volando al di là del campo. Ancora 0-0: delusione comprensibile, ma tutta la partita davanti.
Il problema per l’Argentina arrivò poco dopo. Rigore, per meglio dire ‘rigorino‘, di Walter Samuel su Arley Beetancourth. Altra opportunità dagli undici metri in appena dieci minuti di gioco, stavolta per i ‘cafeteros’. Ivan Cordoba, il mitico centrale dell’Inter, in quel momento al San Lorenzo, diversamente da Palermo non ebbe problemi o patimenti: ingannò il Mono Burgos (ora secondo del Cholo Simeone all’Atletico) e siglò l’1-0 momentaneo.
Gli argentini ribollivano, e c’era ancora tanto tempo. Tempo in cui le occasioni fioccarono, da una parte e dall’altra. Con Burgos che si rifece, ancora dagli undici metri, sul rigore di Hamilton Ricard. Mantenendo i suoi pienamente in vita.
Il tonfo di Martìn
Passavano i minuti e non arrivavano più gol. Mancava appena un quarto d’ora di gioco e il solitario Cordoba continuava a dominare il risultato. L’Albiceleste lottava, provava a pareggiare mettendosi definitivamente alle spalle l’errore di Palermo.
Centro area: Viveros e Martìn se le danno di santa ragione, e sul cross dalla sinistra l’attaccante prova ad anticiparlo di testa. Il destino volle che ancora la mano del colombiano fosse giudice e non certo di pace: altro penalty.
Ancora Palermo. Ancora una bomba centrale: ma neanche la traversa, direttamente in curva. Tre minuti più tardi, la Colombia metteva in ghiaccio la gara con un gol di Edwin Congo.
Più di questo, cosa poteva mai capitare? Ci sono notti che nascono con la luna storta, altre in cui la stessa luna è completamente ribaltata su se stessa.
Sul filo del recupero arrivò un altro gol ‘cafetero‘, opera di Johnnier Montano. E nell’ultima mischia argentina, altro rigore: lo lasciarono a Palermo, che teoricamente avrebbe dovuto togliersi tutta la maledizione, come vestiti bagnati nel bel mezzo di una tempesta.
Solo che la pioggia, nella sua personalissima nuvola gonfia di sfortuna, non cessò di perseguitarlo. Bermudez, compagno nel Boca e rivale in quella partita, lo avvisò: “Loco, non tirarlo… fallo calciare ad altri“.
Palermo però, in quel pallone, vedeva solo un parziale riscatto. Miguel Calero, portiere dell’Atletico Nacional e idolo colombiano, chiuse a chiave la notte orribile di Martìn.
Per sempre, l’uomo dei tre rigori sbagliati in una sola partita.