Proviamo a raccontare l’esperienza di Sven Goran Eriksson alla Lazio affidandoci ad una storia, tanto affascinante quanto quella di vittorie che stiamo per raccontare.
Il mito norreno ci racconta di un’antica e irrisolvibile inimicizia – meglio, guerra – tra gli dèi e i giganti. A tutta prima, il conflitto appare insensato. D’altra parte però anche nella cultura greca i Titani si oppongono a Zeus e famiglia, e Crono (il Tempo) è detto “fagocitatore” dei propri figli (pur divini; è proprio Zeus il primo ad essere messo in salvo da Rea, sposa di Crono, ci racconta Esiodo nella sua Teogonia). È senz’altro lecito trovare dei paralleli tra mito nordico e mito greco a livello letterario, ma qui viene in soccorso il linguaggio: Jötunn infatti, in islandese, significa sì «gigante» ma anche «divoratore» (dal verbo eta, «mangiare»).
Un nordico dall’anima latina
Sven Goran Eriksson è nato in Svezia, laddove il mito nordico e norreno cantato da Snorri Sturluson si è fuso con la storia locale, ma il suo cuore è latino.
È in Italia, soprattutto, che l’ex allenatore ha vissuto il «periodo più bello della [sua] vita» per sua stessa ammissione. È qui, come confessato in una recente intervista, che egli ha posato la propria impronta in modo indelebile.
Certo, Eriksson ha allenato (con scarso successo) anche l’Inghilterra (dopo l’esperienza italiana), e prima ancora appunto è partito dalla Svezia – con quel Göteborg che lo ha reso celebre, e col quale ha vinto la Coppa UEFA ai danni dell’Amburgo. Ma è sul suolo italico, e alla Lazio soprattutto, che ha inciso il proprio nome nella storia del calcio, lasciando inoltre un’eredità tattica non indifferente. Eriksson è un gentleman d’Oltremanica, a tutti gli effetti.
Ma in lui convive anche il fuoco dell’intuizione latina appunto, e quella nostalgia – diciamo pure saudade, visto che ha allenato il Benfica prima di passare alla Roma – che è tipica dei popoli latini. In cosa consiste questa nostalgia? Nell’ambiguità che struttura i grandi, o meglio i giganti, di questo sport. Il gigante, abbiamo detto, è forte e nemico degli dèi. Anzi, la sua forza è proprio la sua debolezza agli occhi del divino, che in ciò vede una minaccia costante.
Anche in Eriksson vivono due anime: una forte, intuitiva e geometrica, l’altra più debole, di un’eleganza quasi soporifera, passeggera.
L’inizio dell’esperienza laziale
Eriksson non è uomo di azione, ma di idee. Passa alla Lazio nel 1997 e qui formerà una tra le più forti squadre di ogni tempo nella storia del calcio. Formare, abbiamo detto. Lasciare in eredità, anche.
Prendete quella Lazio e poi andate a vedere quanti, di quei calciatori, sono diventati grandi allenatori una volta appesi gli scarpini al chiodo: Mihajlovic, Inzaghi, Simeone, Almeyda, Conceicao, Mancini per citare i più bravi. Ma anche Stankovic, Nesta, Stam, per citare quelli ancora in rampa di lancio. La stagione 97/98 è strana per Eriksson.
La Lazio non è ancora lo squadrone che tremare Ferguson farà, ma è comunque una squadra molto forte. In estate sono arrivati Matìas Almeyda, Alen Boksic, Vladimir Jugovic e Roberto Mancini, anche se poi a gennaio verrà venduto Beppe Signori alla Samp. Fino al girone d’andata, la Lazio sembra poter lottare per il titolo. A fine anno, invece, si dovrà consolare con una Coppa Italia (trofeo, quello della coppa nazionale, che Eriksson aveva già vinto in Portogallo e con la Roma).
La Lazio arriverà settima in campionato e perderà la finale di Coppa UEFA (cosa già accaduta ad Eriksson col Benfica) contro un’Inter e un Ronaldo ingiocabili (3-0).
La delusione dello scudetto sfumato
La stagione dopo, 98/99, Eriksson vuole provare il colpo grosso, quello dello scudetto.
Probabilmente, lo meriterebbe più qui che in quello successivo, quando lo vincerà davvero. Nel ’99, invece, arriva l’ennesima beffa – passando per il terribile Franchi – col sapore del torto storico.
Una sensazione già provata da Eriksson, quella del fallimento sul più bello, in quel Roma vs Lecce 2-3 rimasto nella storia (nefasta) della Roma. D’altra parte la Capitale è questa roba qua: caput mundi sì ma in mezzo alle macerie.
E l’imperatore indiscusso della città in quegli anni, Sergio Cragnotti, ci aveva provato a invertire il corso della storia. Non si può dire il contrario. Quell’estate erano arrivati calciatori del calibro di Salas, Stankovic, Mihajlovic, Sergio Conceicao, Ivàn De La Pena, Fernando Couto e Christian Vieri (poi rivenduto a peso d’oro all’Inter l’anno successivo).
La Lazio aveva dominato la stagione, concludendola però alle spalle del Milan dopo un finale di campionato davvero beffardo. Ma contro il Mallorca, in finale di Coppa delle Coppe – ultima uscita storica di questa storica competizione –, la Lazio aveva vinto il primo trofeo europeo della sua storia.
L’anno dopo, verrà bissato con uno straordinario successo sul Manchester United di Ferguson, che affermerà: «abbiamo perso contro la squadra più forte del mondo». Qualche anno dopo, Fergie aggiungerà che «quello rappresenta il mio più grande rimpianto».
L’apoteosi finale
Parole opposte a quelle di Eriksson, che alla Lazio (stagione 99/00) scrive la storia vincendo Supercoppa europea, appunto, Scudetto – all’ultima giornata, mentre Collina fischiava tre volte sotto il diluvio di Perugia in Perugia 1-0 Juventus – e Coppa Italia.
Quella squadra, ai mostri sacri già citati, aveva aggiunto Veron, Sensini, Inzaghi, Simeone.
Difesa a quattro, sempre: pressing, tanto, spinta sugli esterni. Come gli è quasi sempre capitato in carriera (Vierchowod-Gullit-Mancini alla Samp, ad esempio) c’è un leader per reparto (Nesta-Nedved-Salas, anche se in quell’11 è difficile non trovare uomini prima di calciatori). Poi, l’espediente d’oro: l’esaltazione delle singole personalità, a ciascuno il suo.
Gestire quei campioni, non è cosa per tutti. È per i giganti, appunto. Temibili, temerari ma anche ambigui: e infatti Eriksson lascerà poco prima di metà anno (dopo aver vinto un’altra Supercoppa) per rispondere affermativamente alla chiamata dell’Inghilterra. Quando? Precisamente il 9 gennaio del 2001, a 101 anni dalla fondazione della SS Lazio.