Le rivoluzioni non si programmano, ancor meno nel calcio.
Le rivoluzioni si fanno e bisogna avere il tempo, il polso, la lucidità di cogliere tutti gli aspetti e di attendere la maturazione dei frutti, di stagione in stagione, quelle vere e non calcistiche. Non era la prima volta, non sarà certamente l’ultima: alla Juventus hanno sempre imparato a proprie spese i cambi drastici e repentini. Non per qualche maledizione di fondo: semplicemente, c’è un tempo per vincere e non è contemplato un tempo per perdere.
Quella del 1990 era una Juve forte. Ma era anche una Juve nuova. Avevano vinto Coppa Italia e Coppa Uefa un anno prima, guidati da un totem come Zoff, bravo a impartire gerarchie e disciplina e pure lasciando il talento offensivo libero di sbrigliarsi. Ce n’era tanto, in quella squadra. Giovane. Di primissima qualità. Ma come fare a volare senza un gioco così improntato sull’attacco? Perché l’attendismo dominava e non si teneva più il ritmo alto del pressing del nuovo calcio? I due volti di quell’anno sfortunato per i colori bianconeri: Luca Cordero di Montezemolo e Gigi Maifredi.
Alla ricerca del gioco
Ora: la polemica del gioco, che nei giorni nostri si riconduce ancora alla prima era Allegri alla Juventus, è sempre stato un faro delle stagioni bianconere. Una volta completato il suo giro, tornava a illuminare e a destabilizzare parzialmente l’ambiente. A cavallo tra anni Ottanta e Novanta, i bianconeri – cioè, la proprietà – sentono il bisogno di cambiare, di adattarsi a un nuovo modo di giocare e di avvicinarsi, provare a farlo, al dominio incontrastato del Milan che si scatenerà in quegli anni.
Forte, fortissima l’amicizia dell’Avvocato con Silvio Berlusconi. E lo stesso Agnelli è affascinato dalla visione del calcio dell’imprenditore milanese: non solo vittorie, lo show dev’essere assicurato.
Fu così che un vecchio amico e sergente di ferro come Giampiero Boniperti salutò (non senza strascichi) la sua Signora, al suo posto arrivò Vittorio Caissotti di Chiusano. Il leader maximo juventino era però Luca Cordero di Montezemolo, in rampa di lancio dopo l’organizzazione dei Mondiali di Italia ’90. Diventa il vicepresidente esecutivo: ha tutto in mano, particolarissimo potere decisionale.
Il primo step? Rinforzare la squadra con 70 miliardi di lire. Poi “svecchiare”, ancora: via Giuliano (dg), via Secco, via Dino Zoff. E via per una scelta azzardata, una brutta copia del guizzo di Berlusconi con Sacchi: la truppa bianconera diventava di Gigi Maifredi, bresciano, già adocchiato da Boniperti e con un curriculum di provincia e di ottimi risultati. Prima della chiamata del manager, aveva portato il suo Bologna in Coppa Uefa in maniera esaltante e spettacolare. Era tutto ciò che la Juve stava cercando, calibrato per il massimo risultato.
Durante Italia ’90, fu invitato dalla Juventus alla semifinale mondiale a Torino: lo inviarono in un box con Boniperti, Kissinger (il Segretario di Stato americano), il presidente Mercedes e della Morris, il presidente Fiat in Argentina e ancora un uomo, che si rivelerà determinante. Era il segretario personale dell’Avvocato, il quale a fine partita lo scortò verso l’aereo privato con quattro posti nel salottino: Agnelli, Romiti e Montezemolo. Il quarto: Gigi Maifredi.
La squadra
Volevano fargli firmare un triennale; Maifredi disse: no, grazie. Il motivo? Era abituato a prolungare di anno in anno, a togliere le tende se la situazione fosse degenerata. Non era per i progetti, lui. Dentro o fuori, la va o la spacca. Insieme a Nello Governato, direttore sportivo, Montezemolo gli allestì una situazione paradisiaca: aveva un nuovo campo di allenamento, un nuovissimo Delle Alpi, un gruppo tutto da modellare. Con Luppi e De Marchi in difesa, poi Hassler e Julio Cesar tra gli stranieri. C’era un giovane interessante come Paolo Di Canio e soprattutto il più forte del mondo dopo Maradona, ossia Roby Baggio.
57 miliardi di euro spesi in un’estate, con l’ambizione di portare a casa anche Dunga, purtroppo svanita sul più bello. La squadra, insomma, è forte. E sembra perfetta per il rombo di Maifredi, con Baggio alle spalle di Casiraghi e Schillaci, l’uomo delle notti magiche. Nella prima, in Supercoppa, si va al San Paolo di Napoli: 5-1 per Diego e i compagni. La partenza sembrò un fulmine a ciel sereno, ben presto si fece presagio di tempesta.
Certo, anche Maifredi ci metterà del suo. A partire dalla famosa frase: “Mi avevano insegnato che la Juve era sempre abituata a vincere”, detta a mezza stampa dopo un ko clamoroso come quello contro gli azzurri. A tenerlo a galla nella prima parte di stagione è Baggio e i suoi gol (spesso) dal dischetto, e l’illusione si fa forte il 28 ottobre contro l’Inter: 4-2 netto, Casiraghi e Schillaci e Sampdoria – prima – in scia, molto vicina. Dal momento migliore, la Juve passa rapidamente al peggiore: è il ko di Bari, il primo dell’annata, a cui fa seguito una vittoria con la Fiorentina e un pari col Torino, arrivando al Cagliari di Ranieri e a tutte le incertezze finalmente a galla di una squadra oggettivamente fragile.
Le ingenuità
È un’altalena di risultati, la Juve. Vince a Pisa, perde con il Genoa in casa. La verità è incontestabile e la racconta proprio Maifredi: questa squadra può fare qualsiasi risultato contro qualsiasi avversario. Dunque, automaticamente non è “da Juve”. Montezemolo velocemente lo abbandona, nonostante buoni risultati nella Coppa delle Coppe e la doppia sfida (persa) contro un Barcellona fortissimo. Maifredi aveva intravisto una bozza di futuro. Ingenuamente.
E ingenua era anche quella Juve, mai realmente dentro le partite. Perde con la Sampdoria una gara decisiva, perde contro l’Inter e con il Torino, anche in Coppa Italia è la Roma a eliminarla ai quarti. I tifosi mugugnano e siamo sull’orlo del disastro: la Juve arriva settima in classifica ed è fuori dalle coppe europee dopo 28 anni. Maifredi ha chiuso la sua esperienza, neanche ufficialmente ed è già un fantasma per il centro di Orbassano.
Alla fine della fiera, dirà: “Dopo la sconfitta di Genova con la Samp, la stampa di Torino, che si sa bene è in prevalenza di fede granata, iniziò una campagna denigratoria contro di me ed è andata come tutti sapete. Ma io ho fallito solo la qualificazione alla finale di Coppa delle Coppe ma nonostante questo tutt’ora quando incontro Roberto Baggio ancora si scusa per gli errori di quella sera. In campionato mi era stato chiesto solo di fare un campionato di transizione… Se fossi rimasto sulla panchina della Juve l’anno dopo avrei vinto lo Scudetto ed avremmo costruito un ciclo di vittorie!”.