Ottantadue anni e la voglia matta di sedersi e guardare partite. Giorno e sera. La sua Juve, il suo Milan, il Napoli nonostante quell’addio così duro da digerire (per tutti). José Altafini è ancora oggi un simbolo del calcio italiano: ha fatto la storia di una generazione di tifosi, è entrato nel cuore persino dei più giovani, con le prime telecronache spettacolari in cui spesso affiancava Pierluigi Pardo. Insomma: ha avuto tante vite. In campo e fuori. E ha fatto tanti gol, con tutte le maglie che capitavano a disposizione, tra Brasile e Italia.
E il suo cuore è sempre stato diviso a metà. Carioca e azzurro. Comunque da campione: perché di vittorie ce ne sono sempre state. A partire dalla Coppa del Mondo 1958 con il Brasile, passando per la Coppa Campioni con il Milan. Il San Paolo di Napoli ribolliva alla celestiale visione del mancino di Sivori e del finalizzatore José. Alla Juve, una vita da operaio: partiva in panchina, timbrava il cartellino, gol e chiudeva i conti. Amatissimo, ovunque sia andato.
Arriva «Mazola»
Dove nasce, il cuore italiano? Dalla famiglia. Prima generazione di emigrati: Gioacchino Altafini e Maria Marchesoni erano ‘scappati’ in Brasile poco prima che la seconda guerra mondiale entrasse nel vivo. Nel 1938, nacque il piccolo José, e le condizioni di vita si fecero sempre più difficili, da digerire e da sostenere. Già a nove anni, Altafini si divideva tra scuola e lavoro: arriva a conseguire un diploma di meccanico, concludendo a fatica l’istituto professionale.
Il resto, è tutto giusto: gli allenamenti, l’infanzia, il tirare dritto senza cedere alle tentazioni. Altafini è un portento del Piracicaba, squadra minore della sua città natale. Da sempre, con entusiasmo, guardava l’immagine del Grande Torino nella sede del club: gli faceva pulsare le origini italiane, e poi c’era la somiglianza – netta – con il grande Valentino Mazzola.
La faccia squadrata, il volto da bravo ragazzo, quel talento per il calcio che – si vedeva – era semplicemente naturale. Ecco perché venne sin da subito chiamato ‘Mazola‘, ecco perché il sogno divenne immediatamente quello di andare in Italia. A giocare il ‘gran calcio’, in stadi stracolmi e in città in visibilio.
Il primo assaggio di una piazza importante arrivò al Palmeiras: era il 1956 e arrivò il debutto nel campionato dello Stato di San Paolo. In due stagioni, mise insieme 32 gol in 63 partite. Contando anche le amichevoli e i tornei para-ufficiali, addirittura 85 gol e 114 partite. Medie da Cristiano Ronaldo, diremmo oggi. Medie che attirarono le attenzioni delle squadre italiane, definitivamente colpite dalle sue gesta poco prima del Mondiale in Svezia: il Brasile organizza alcune amichevoli in Italia contro Fiorentina e Inter, e in quest’occasione arrivano alcuni dirigenti del Milan a visionarlo. Basta uno scatto, non hanno tempo e modo di riflettere oltre: 135 milioni di lire e a vent’anni è il centravanti dei rossoneri.
Milan, Napoli e Juventus
Oh, che grande storia quella con il Milan. Durerà ben sette anni e saranno quasi tutti strepitosi. Lo è certamente il 1960, quando a fine marzo realizza una quaterna in un derby di Milano (5-3 per i rossoneri); nel novembre del 1961, farà lo stesso contro la Juventus. E sarà anche il primo anno in cui vincerà la classifica dei marcatori con Milani. Ecco, in quegli anni, in quella Milano soprattutto, Altafini era il simbolo di un calcio dinamico, sempre più diverso, sempre più spettacolare e legato all’esercizio del gol. In sette stagioni vince due scudetti, ed è soprattutto decisivo nella Coppa dei Campioni del 1963: record di 14 reti nella competizione, battuto solo da Ronaldo (appunto) con le 17 marcature del 2014. È sua, la doppietta con la quale il Milan batte il Benfica a Londra, nel leggendario Wembley Stadium.
Una grandiosa storia d’amore che termina come tante altre: tra le polemiche. Scaturite principalmente dalla mossa di Gipo Viani, il suo allenatore: consapevole della vita notturna di Altafini, cominciò a pedinarlo e lo seguì in un night milanese. La leggenda narra di un Altafini imbarazzato: si nascose dietro un divanetto e fu chiamato ‘Coniglio’ dal suo tecnico. In quel momento, qualcosa si ruppe: fuggì in Brasile, litigò con Amarildo e Paolo Ferrario.
Si innamorò perdutamente della moglie di Paolo Barison, compagno rossonero. E l’addio fu inevitabile, con il Comandante Achille Lauro in prima persona a trattare il suo arrivo a Napoli. Un’ora e quaranta minuti di trattativa: domanda e offerta, l’accordo e tutti i dettagli subito stilati. Il San Paolo lo accolse come il salvatore dai potenti del nord, lui che un certo dramma l’aveva sempre avuto dentro. Come andò? Andò per sette anni. Andò in coppia con la meraviglia Omar Sivori. Andò al massimo al secondo posto finale, nel 1968, godendosi una straordinaria città ma senza tornare a vincere nulla.
71 gol in 180 partite: l’azzurro gli era entrato dentro, ma la voglia di cambiare aria e di tornare a respirare l’alta quota non era andata via. Nell’estate del 1972, a 34 anni, la Juve lo acquista insieme al compagno di squadra Zoff: avrebbe dovuto fare il comprimario, dietro Anastasi e Bobby goal, Roberto Bettega. Finì per diventare protagonista, seppure spesso partendo dalla panchina: due scudetti praticamente subito, nel 1973 e nel 1975.
Imparò a giocare ‘alla Altafini’, appunto, e cioè timbrando il cartellino: ingresso e gol, a un certo punto sembravano scontati. A Napoli non la presero benissimo e come sempre il destino calcistico decide di rincarare la dose: nel 1975, la sfida scudetto era proprio tra i bianconeri e i campani. Fu una partita sporca, sentita, tesa. Uno a uno a pochi minuti dalla gara, destinati per sempre a diventare l’attimo del cuore ingrato. Altafini realizza infatti la rete decisiva all’88’, che consente alla Signora di staccare gli azzurri e vincere il titolo. Pochi giorni dopo, su un lato dello stadio San Paolo, c’è una scritta: “José core ‘ngrato“.
E le nazionali
Altafini è stato inoltre il grande oriundo della storia del calcio. Riconosciuto cittadino italiano al suo arrivo a Milano, fu eleggibile per la maglia azzurra. E la prese, ben volentieri, inorgogliendo i suoi genitori e prendendo per mano quella squadra che aveva bisogno di tanto e non meno di un centravanti.
Fece faville anche lì: 5 reti in 6 partite, esordendo il 15 ottobre 1961 contro Israele e giocando il Mondiale del ’62 in Cile. Un treno passato velocissimo, dal quale fu scaraventato a terra senz’appello: l’uscita precoce da quel torneo fu imputata totalmente agli oriundi. Aveva appena 24 anni: l’Italia ce l’aveva con gli stranieri, non fu più convocato.
E il Brasile? Aveva una regola particolare: in nazionale venivano schierati esclusivamente i giocatori che militavano nei vari campionati nazionali. Aveva giocato, e vinto, il mondiale di Svezia del 1958: era il più giovane dopo Pelé e giocò la prima con l’Austria, segnando una doppietta. Poi l’Inghilterra e… un infortunio, che non gli diede quasi più occasioni.