La storia di Jesse Owens è stata raccontata in tutte le salse, film, documentari, fiumi di inchiostro versati su libri e articoli di stampa specializzata, trasmissioni televisive e il resto aggiungetelo voi.
Tutti hanno sempre detto la loro su un atleta che, se vogliamo rimanere in ambito puramente sportivo, ha aperto la strada verso l’atletica leggera di stampo moderno. Quella di Pietro Mennea, Sara Simeoni, Serhij Bubka, Carl Lewis, fino ad arrivare con il pensiero ai campioni dei giorni nostri
Ma se vogliamo espatriare dal mero risultato sportivo, come spesso accade per i personaggi storici che hanno calcato le scene di quel periodo in ogni loro campo, le cose dette e non dette sono sempre e comunque tantissime.
Chi era Jesse Owens
Il suo nome completo era James Cleveland Owens e si trasferì a 10 anni non ancora compiuti dall’Alabama, stato nel quale papà e mamma non riuscivano quasi mai a sbarcare il lunario, a Cleveland, nell’Ohio.
Non fu un’infanzia facile quella di “Jesse”, tutt’altro.
Erano gli anni della Grande Depressione, quelli incastonati all’interno della parte successiva alla prima guerra mondiale, quella ancor più severa con quella porzione di ceto sociale a cui la sua famiglia apparteneva e con quelle parti geografiche degli Stati Uniti in cui tardava ad arrivare quello che noi tutti oggi definiamo “progresso”.
Gli annali ci dicono che il piccolo Jesse, nomignolo affibbiatogli da una insegnante di letteratura ai tempi della sua frequentazione delle scuole tecniche, nacque a Oakville il 12 settembre del 1913, ma la sua straordinaria carriera di velocista cominciò piuttosto tardi, proprio quando iniziò a frequentare quella che da noi viene chiamata scuola superiore.
Gli inizi in punta di piedi
Owens, in quel periodo, non ha mai pensato in cuor suo di diventare una stella o, ancor meno, una leggenda dell’atletica leggera, ma non disdegnava il sacrificio e l’idea del lavoro, abituato com’era alla vita di stenti che la sua condizione economica lo avrebbe condannato per tutta la vita.
Finiva la scuola e correva da un amico di famiglia che, in cambio di pochi dollari, “insegnava” il mestiere di calzolaio al piccolo Jesse, dove il verbo “insegnare” potete tranquillamente essere scambiato alla pari col verbo “sfruttare”.
Ma non era certo questo il problema del futuro campione, anzi.
Alla fine delle sue ore di lavoro, se rimaneva tempo, Jesse si allenava con avidità correndo in lungo e in largo per le sterminate campagne dell’Ohio.
All’età di 20 anni, quando si disputarono i campionati studenteschi, Owens dimostrò agli osservatori giunti da ogni parte dei territori stelle e strisce, che tipo di potenzialità avrebbe potuto esprimere negli anni a venire e questo gli permise di ricevere una borsa di studio e l’ammissione all’Università statale dell’Ohio.
Qui cominciò ad allenarsi seriamente e dopo meno di due anni, quando partecipò al Big Teen organizzato nel Michigan, battè nel giro di un’ora qualcosa come 6 record del mondo, tra cui il portentoso 8,13 metri nel salto in lungo.
I Giochi Olimpici di Berlino del 1936
Quelli che si sarebbero svolti un anno dopo nel cuore dell’Europa Nazista, a Berlino, avrebbero invece avuto tutti i crismi della contraddizione.
La magnificenza organizzativa messa in piedi dagli uomini di Hitler, cocciava inesorabilmente con il severo giudizio che il resto del mondo serbava verso un Paese molto lontano da ogni dogma decoubertiano.
Se solo si pensa ai cinque cerchi olimpici, rappresentanti ognuno un continente abitato nel mondo, già questo potrebbe far storcere il naso.
Se poi si scava un pochino nel profondo e si scopre che buona parte degli atleti di tutto il mondo furono semplicemente cancellati dalle liste di partecipazione alle Olimpiadi del 1936, allora va da sé che qualcosa non stava andando per il verso giusto.
Quelle Olimpiadi, d’altro canto, vengono ricordate come tra le meglio organizzate della storia moderna, sia in chiave prettamente sportiva, che in quella divulgativa.
I migliori cervelli del Paese teutonico, uniti ad una disciplina ferrea e una tecnologia d’avanguardia, fecero di quei giochi un tripudio di successi e attestati di stima inferiore a poche altre edizioni.
Il caso USA
Tra le nazioni che più tempo hanno impiegato a prendere una decisione sulla propria partecipazione, c’erano gli Stati Uniti, guidato al tempo dal mitico Presidente Franklin Delano Roosevelt che, in ultima istanza, mandò in perlustrazione il proprio delfino Avery Brundage, a capo del comitato olimpico americano.
L’ultima parola sarebbe spettata a Brundage, ma Roosevelt non era a conoscenza che il suo fido consigliere stravedesse per Hitler e anche per i suoi modi poco consoni di pensare alla politica internazionale. Ecco che gli USA volarono portando i propri atleti a Berlino, previa la cancellazione di un paio di campioni ebrei eliminati dalle liste giusto alcuni giorni prima della partenza…
Hitler era poco incline, inoltre, a seguire i dettami della fratellanza sportiva e utilizzò i Giochi olimpici per focalizzare l’attenzione sullo spettacolo e sulla riuscita dell’evento per aumentare i consensi del proprio partito, dentro e fuori della Germania, fiutando comunque alcuni pericoli per eventuali manifestazioni “fuori dagli schemi” di un comparto sociale, quello dello sport, a cui dare troppa importanza mediatica poteva essere contorproducente.
Ciò che non rese tutto perfetto: Jesse Owens
Jesse Owens rappresentò l’anello di rottura della macchina perfetta di quelle Olimpiadi: a fronte di un’edizione sostanzialmente dominata dagli atleti di razza ariana (la Germania portò a casa poco meno di 90 medaglie risultando prima nel medagliere), Owens riuscì nell’impresa di mettere al collo qualcosa come 4 medaglie d’oro, 100 e 200, staffetta 4×100 e salto in lungo.
In questo senso si mischia da decenni ciò che realmente è successo e aneddoti più o meno veritieri.
Uno di più belli e conosciuti è quello del rapporto quasi fraterno che si venne a creare tra lo stesso Owens e il suo avversario principale per la medaglia d’oro nel salto in lungo, il tedesco Luz Long.
In tanti hanno sempre messo in evidenza l’episodio che l’atleta europeo avesse dato dei consigli decisivi per quella che poi fu la vittoria dell’americano.
Il più importante tra tutti, riguardava la prospettiva che gli atleti sviluppassero nella corsa che portava dalla partenza allo stacco, aiutata, secondo il parere di Long, dall’attenzione verso qualche riferimento sempre fisso che faceva capo ad alcuni punti focali dello stadio.
Al termine della gara fu proprio il tedesco a congratularsi per primo con il “colored” e molte foto dell’epoca ritraggono i due insieme, cosa che non fece piacere a Hitler.
In tanti ci hanno sempre detto che alla premiazione di Owens che fece seguito a quella vittoria, Hitler non solo non vi prese parte, ma la abbandonò scuro in volto prima che gli atleti entrassero all’interno dello stadio.
E invece accadde qualcosa di miracoloso.
Ma la verità, almeno a detta di Owens è un’altra.
Come lo stesso atleta americano scrisse nella sua autobiografia, al termine della premiazione, con tanto di medaglia al collo, Owens passò sotto la tribuna delle autorità, incrociando lo sguardo per qualche secondo proprio con Hitler.
Ma non è tutto: il capo del partito nazista si alzò in piedi per omaggiare la vittoria del proprio “rivale” riconoscendone il valore, episodio che, ancora a distanza di anni, fa capire quanto importanti furono i successi di Owens.
Questo quadro ha del miracoloso, non vi sono aggettivi più calzanti: rappresenta il Führer che si arrende allo strapotere di una razza da lui considerata inferiore e che non può fare altro che omaggiarlo, salutarlo da eroe prima, e da campione poi.
Le cronache dell’epoca, queste però da verificare, ci raccontano che una foto autografata personalmente da Hitler fu fatta recapitare all’atleta statunitense una volta tornato in patria, foto che Jesse avrebbe tenuto per sempre dentro il suo portafoglio.
Nessuno pensi che la descrizione di tali manifestazioni svolgano una sorta di revisionismo dell’ultima ora, tanto che, giusto per la cronaca, pochi anni dopo la chiusura di quei Giochi Olimpici, Hitler diede il via ad una delle più vergognose carneficine ai danni di milioni di ebrei.
Ma ciò che potrebbe farci riflettere è quanto possa essere superiore il significato che il quadretto appena riportato può insediarsi all’interno delle nostre coscienze.
La Politica che si fa piccola rispetto all’impresa sportiva di un uomo arrivato da una delle parti più povere del Pianeta.
Un totale appiattimento e livellamento del piano di campo di gioco, in cui non esistono più razza, cultura, odio e pensieri di superiorità.