Il calcio abita una dimensione fatale. Si alimenta di destino, non di caso. Il caso è imprevedibile, il destino segue leggi proprie. Sebbene non possiamo prevederle, un cuore sincero e un occhio vigile riescono a intuirle, almeno retrospettivamente. Euro 2020, con tutto ciò che ha rappresentato per gli italiani, non trova forse le sue radici più profonde in Euro 2016?
Quest’ultimo campionato europeo, nel sentire collettivo degli appassionati, è stato forse ancora più vivido nei ricordi e nell’affetto per quella squadra, rispetto alla gioia del trionfo avvenuto quattro anni (cinque, a causa del rinvio) più tardi.
Una sconfitta amara e immeritata
Pensate alle lacrime di Barzagli: davanti ai microfoni, incapace di analizzare l’accaduto, riusciva solo a dire, con quel poco di voce rimasta: “c’era voglia di stare insieme, per questo ci dispiace”. Queste parole, nella loro semplicità, catturano l’essenza di quell’Italia. E raccontano molto, anche se non tutto, di quell’Italia-Germania, terminata 1-1 e poi 5-6 ai rigori. Potremmo partire da lì, rievocando il dolore e cercando conforto nel ricordo. Forse potremmo ricordare il gesto del cucchiaio – meglio, del pallonetto – di Graziano Pellé contro Manuel Neuer, o la rincorsa infinita di Simone Zaza, il cui rigore sancì di fatto la fine della sua carriera.
Ma potremmo anche parlare del coraggio di una nazionale guidata da un condottiero audace e formata da 26 ragazzi altrettanto valorosi: Antonio Conte, e poi Barzagli, Chiellini, Buffon, Bonucci, ma anche Parolo, De Rossi, Éder, lo stesso Pellé, Giaccherini! Non era un’Italia forte tecnicamente, ma era unita come gruppo, nel pensiero e nel cuore. Il giorno dopo quella partita, per la prima volta nella storia (su 37 tentativi totali tra tutte le competizioni), la Germania poteva vantarsi di aver eliminato l’Italia in una fase finale di un torneo ufficiale – ma non nel tempo regolamentare, ancora una volta. La Gazzetta dello Sport scriverà, con commozione: “Ciao, meravigliosa Italia. E grazie di tutto”.
A testa altissima
Perché? Perché venivamo da due mondiali deludenti e un Europeo perso in finale contro la Spagna (4-0), mentre loro da un mondiale vinto. Eppure, la Germania aveva tremato. Passati in vantaggio con un gol di Mesut Özil al 65’, l’Italia sapeva di essere inferiore tecnicamente, ma non certo sul piano caratteriale. Bordeaux ricorda, voi dalle vostre case o dai pub ricorderete. Ricorderete la coesione di quel gruppo, la grinta mostrata contro il Belgio, ma anche la qualità del gioco voluta con determinazione da un allenatore allora considerato il migliore del mondo. E i calciatori, in quella sacra battaglia, lo riconoscevano. Per lui, si sarebbero gettati nel fuoco.
E la battaglia di Bordeaux lo dimostra. Draxler, Gomez, Müller, Özil sembravano fantasmi sulla trequarti azzurra, ma la BBC li fermava e il centrocampo muscolare faceva il resto. La difesa strenua della porta dava però spazio a Mats Hummels, il Bonucci tedesco, che imponeva il ritmo da dietro. Khedira si era infortunato, sostituito da Schweinsteiger, un avversario già visto trionfare contro l’Italia dieci anni prima, in semifinale ai mondiali del 2006. L’Italia creava anche occasioni a Bordeaux, spaventando i tedeschi con un tiro di Sturaro. Quest’ultimo, insieme a De Sciglio e Parolo, all’inizio del secondo tempo ricevette un’ammonizione cruciale per la tattica richiesta da Conte.
L’Italia si era risvegliata ma si abbassava, permettendo ai tedeschi di segnare al 19’. Conte si agitava, urlava, incitava. Gridava e Pellé andava vicino al pareggio. Bonucci lo trovò, su rigore, dopo un fallo di mano di Boateng in area. Neuer non poté fare nulla contro il tiro del difensore juventino. Ma sarebbe stato proprio il portiere del Bayern Monaco a decidere la sfida ai rigori, insieme alla sfrontatezza un po’ smargiassa di Pellé e Zaza.
Anche Müller (ancora fermato da Buffon), Özil e Bonucci sbagliarono. Quando sembrava tutto scritto, Schweinsteiger sbagliò clamorosamente. Ma Neuer imprigionò Darmian al suo e al nostro destino. Il rigore decisivo di Hector ci mandò a casa, sebbene la voglia di stare insieme fosse immensa. Talmente immensa da renderci euforici, felici, quasi increduli, quattro (cinque) anni dopo, quando la storia avrebbe ripreso il suo corso. Eupalla, la dea del calcio, non dimentica i suoi figli.