Una sorta di leggenda ancora in attività, con tutte le possibilità di questo mondo di sfondare nel calcio italiano e, soprattutto, nella Juventus. Lui si chiamava Ian Rush…e non andò esattamente così.
L’addio di Le Roi
Correva l’anno 1987, Michel Platini aveva appena preso la decisione di ritirarsi dal calcio giocato, improvvisamente, sì, ma per motivazioni piuttosto plausibili, visto che, in un’intervista rilasciata a seguito di questa decisione, disse che non ce la faceva più.
“Le roi” aveva appena 32 anni. Certo, il suo ruolo non era tra i meno dispendiosi, per la Juve di quell’epoca risultava assai difficile mantenere un ritmo blando nella sua posizione in campo e, come tutti sanno, il transalpino non si era certo risparmiato durante la sua carriera.
Platini era rimasto uno dei pochi dello zoccolo duro dell’epoca, all’interno di un organico in continua evoluzione, che il Presidente della Juventus di allora, Giampiero Boniperti, provava a migliorare di anno in anno.
Chi sostituisce Platini?
Nonostante la proposta della dirigenza bianconera che aveva provato a rinnovare il contratto al francese riservandogli un ruolo tecnico in campo molto meno affaticante che gli avrebbe allungato la carriera di qualche anno, Platini fu irremovibile e si ritirò volando verso ruoli diversi da quello di calciatore.
A quel punto vi fu l’esigenza di rimpiazzare il francese, in primis in quella parte del campo e poi per accontentare i tifosi, sempre piuttosto critici per l’abitudine al successo.
Oltre al transalpino i bianconeri persero i servigi di Aldo Serena, rientrato all’Inter dopo una doppia stagione, di cui l’ultima alla corte di Rino Marchesi, allenatore confermato anche per l’annata 87/88.
Il centrocampo della Juventus, non certo all’altezza delle stagioni precedenti, era formato da un nugolo di giocatori interessanti, ma oltre al danese Michael Laudrup e a Massimo Mauro, il talento scarseggiava.
Il nord europeo provò a fare le veci di Platini, mentre, tra i titolari venne inserito il faticatore Marino Magrin, arrivato dall’Atalanta.
Completavano il reparto Angelo Alessio, Ivano Bonetti, Massimo Bonini, e Beniamino Vignola, tutti buoni giocatori, certo, ma mancava quella spinta tecnico-propulsiva che solo il francese sapeva dare.
Ian Rush
Per sostituire il longilineo Serena, a placare i malumori della tifoseria bianconera, fu scelto il gallese Ian Rush, accolto a Torino come una specie di semidio del pallone che aveva sfondato le reti delle squadra avversarie incontrate in Inghilterra, prima al Chester City, 14 gol in 34 partite e poi al Liverpool, sua squadra storica, dove nelle 8 stagioni precedenti fu autore di 139 reti in 224 partite.
Per quell’epoca quei numeri rappresentavano qualcosa di impressionante e la Juventus non aveva certo intenzione di farsi scappare un talento del genere appena percepita la possibilità che i “Reds” lo potessero liberare.
Inoltre, buona parte dei sostenitori juventini aveva ancora negli occhi le mirabolanti imprese di John Charles, in forza alla Juve a cavallo tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, quando fu capace di mettere a segno 93 gol in 153 match, in coppia con Omar Sivori.
L’inizio poco confortante
Ian Rush portò alla Juve una ventata di speranza, dopo lo sconforto dell’addio di Platini. Tutti puntarono sul fatto che il gallese potesse ripetere i fasti del suo glorioso connazionale arrivato a Torino 20 anni prima.
Ma subito dopo qualche apparizione sconcertante, l’ambiente si ricredette quasi subito e furono in pochissimi a dargli credito per le partite successive.
Si creò un clima piuttosto pesante attorno al gallese, che non riuscì ad ambientarsi durante il ritiro, a inizio campionato, nelle coppe e nemmeno quando fu abbastanza palese che la sua avventura italiana fosse un fallimento.
Qualche guizzo
In realtà i numeri, ad una analisi superficiale, non furono nemmeno poi così disastrosi.
Rush mise a segno 14 gol durante le sue 39 apparizioni in maglia bianconera, che, per la stagione d’esordio di uno straniero nel campionato in cui giocavano le difese migliori del mondo, non sarebbe nemmeno un numero così terribile.
La realtà è che di quelle 14 reti solo 7 vennero segnate in campionato, bottino magrissimo che non aiutò la Juve ad evitare una stagione piuttosto deludente, chiusa con un sesto posto che significò Coppa Uefa acciuffata per i capelli dopo uno spareggio contro i cugini del Torino.
Debutto sfortunato
La carriera di Rush in Italia comincia con un episodio che potrebbe far pensare subito ad una sciagura.
Durante il suo debutto contro il Lecce in Coppa Italia, Rush si fa male quasi immediatamente e deve abbandonare la squadra per circa 4 settimane e, al suo rientro, alla seconda di campionato, la Juve perde per 1-0 a Empoli.
Nella giornata successiva contro il Pescara, il gallese mette a segno una doppietta, ma è solo un fuoco di paglia, poiché tutti si accorgono immediatamente quali siano le difficoltà del giocatore.
I problemi con la lingua…
Nessuno riuscì a mettere in testa a Rush che la lingua, in un contesto come quello di quasi 40 anni fa, avrebbe fatto la differenza in un gruppo formato dal 90% da persone, giocatori e staff italiani.
Fu abbastanza palese fin da subito che il gallese non era tagliato per l’avventura italiana, tanto che fu lui stesso a dichiarare che l’unica persona con cui riuscì a legare, fosse Laudrup, uno dei pochi a parlare la sua stessa lingua.
C’erano ovviamente problemi di pigrizia, di chiusura verso un mondo che non lo capiva e che lui non riusciva a capire, tanto che furono più di uno gli episodi in cui Rush ritardava agli allenamenti, o assumeva un comportamento poco consono a una società come la Juve.
…E coi difensori
Inoltre c’era da fare i conti con un sistema difensivo come quello delle squadre italiane che non aveva nulla a che fare con quello dei team inglesi.
Fu proprio quel periodo che ancora oggi viene preso ad esempio per ricordare i marcatori e le marcature arcigne, quando fare la punta era bello, ma massacrante sia a livello fisico che mentale.
In Inghilterra veniva concessa a Rush una certa libertà in area di rigore, cosa che in Italia non avveniva, nemmeno con le squadre più sbarazzine del lotto di Serie A.
Fu lui stesso, dopo qualche anno, a dichiarare che l’Italia gli servì a capire l’importanza di giocare anche fuori dall’area di rigore, a cercare lo scambio coi compagni, a venire a prendersi il pallone sulla trequarti.
Boniperti, convinto anche dal volere del giocatore, lo rivendette al Liverpool per 2,8 milioni di sterline, dopo averlo acquistato dai ”Reds” per 3,2, solo un anno dopo. Non esattamente un affarone.