Diciotto settembre 2018. Data importante, quella, per i tifosi interisti: dopo 2380 giorni di astinenza, i nerazzurri tornano a disputare una partita di Champions League.
A San Siro arriva il Tottenham di Kane, Son ed Eriksen: ed è proprio il danese (futuro interista) a portare avanti gli Spurs, per quella che sembra poter essere una importante vittoria in trasferta.
Ma l’Inter non molla, e sul finire prima Icardi pareggia la gara, poi Vecino, di testa al 92’, la ribalta.
Ed è in quel momento che Daniele Adani, al commento, per sottolineare la prodezza del centrocampista uruguaiano, urla una frase destinata a rimanere nell’immaginario collettivo dei tifosi italiani: “la Garra Charrua!!!”
Già, la Garra Charrua. Pittorescamente ripresa più e più volte, da quel momento. Ma di che cosa si tratta? Cos’è la Garra Charrua? E perché la si associa agli uruguagi?
La definizione di “Garra Charrua“
Questa espressione, usata prevalentemente in Uruguay a partire dagli anni Venti, va scomposta: prima si consideri “garra”, che in spagnolo è traducibile come “artiglio”, che però nel tempo si è evoluto in “convinzione” o “persuasione”. Perché la “garra”, concettualmente, nella cultura uruguaiana ce l’ha infatti chi non indietreggia mai, chi lotta con le unghie e con i denti, chi sputa il sangue e lotta fino alla fine.
I “charrua”, invece, erano una tribù di indios precolombiani che avevano casa sulle rive del Rio della Plata, che per anni hanno combattuto contro i colonizzatori.
Charrua che di indole avevano sempre un certo coraggio, una certa grinta battagliera; pertanto, nel tempo, l’espressione “garra” è sempre stata abbinata a “charrua”.
“Garra charrua”, quindi, è sinonimo di tenacia, coraggio e volontà di rimediare alle avversità.
Quando è nata l’espressione “Garra Charrua”?
È curioso il momento in cui nasce l’espressione in oggetto, dal momento che pare essere datata, come detto, anni Venti: il che è strano, visto che all’inizio del secolo scorso l’Uruguay era una corazzata capace di vincere due Mondiali e due Olimpiadi.
Ma c’è un vero punto di svolta, nella storia sportiva uruguagia, un momento che più di ogni altro determina il significato di “Garra Charrua” : parliamo della finale del torneo Sudamericano del 1935, come fedelmente riportato nel libro ufficiale della Federazione “100 anos de Gloria”.
Si disputava Uruguay – Argentina a Lima, in Perù. Gli Uruguaiani, distrutti dalla fatica, riuscirono a ribaltare a proprio favore la finale dopo essersi trovati sotto: era l’inizio della tradizione della Garra Charrua, ovvero la determinazione e lo spirito che avevano guidato la Celeste alla vittoria finale.
O ancora: che dire del Maracanazo, quando l’Uruguay nel 1950 inflisse la più clamorosa sconfitta al Brasile della loro storia? Vittoria contro tutti, con sacrificio, lotta, emozione, dolore che poi diventa felicità.
Più recentemente, poi, la Garra Charrua è stata rispolverata dai telecronisti sudamericani in una occasione molto chiara, seppur controversa: parliamo del quarto di finale dei Mondiali 2010, quando l’Uruguay si gioca tutto con la sorpresa Ghana.
Al 120’ un batti e ribatti in area sudamericana si conclude con una parata a mani aperte di Luis Suarez, che salva la propria porta da un gol sicuro, ma viene espulso e genera un penalty per il Ghana.
Gyan spedisce il pallone sulla traversa, e pochi minuti più tardi, ai rigori, è l’Uruguay a gioire: seppur in modo controverso, anche questo è un esempio di “Garra Charrua”, ovvero quel sentimento a cui aggrapparsi, quella pena da patire prima di gioire insieme.
Al limite tra divinità ed esoterico.
“L’ultima parola agli uruguagi!”