“Vivo dimenticato. Il grande calcio si è scordato di me e non so perché. Sono direttore sportivo a Coverciano e da anni aspetto una telefonata che non arriva. Spiegazioni? Forse non frequento i giri giusti”.
Non è la prima volta che emergono parole simili, ma colpiscono molto di più quando arrivano da un simbolo del pallone, che in Italia conoscono tutti e ha praticamente girato mezzo campionato.
Quello di Claudio Garella, ex portiere, a Gazzetta, non fu un grido disperato: semplicemente una presa di coscienza. Il calcio, quello che ha saputo colorare con le sue gesta, è oggi un affare marginale. Anche se per anni ha fatto ammattire, emozionare, arrabbiare e godere le principali piazze italiane.
Verona e Napoli su tutte, ma non solo: se conoscete la storia, ricorderete anche il suo trascorso particolare alla Lazio. Qualche errore di troppo e la crudeltà che solo certe curve sanno offrire: Garella divenne ‘Paperella‘.
L’inizio nella sua Torino e nella Lazio
Torinese. Torinista. Il 16 maggio del 1955, Garella si fa di nascita sabauda ma d’estrazione tutt’altra che fredda; cresce nel Toro e debutta a soli 18 anni.
È il 28 gennaio del 1973 quando Gustavo Giagnoni lo manda in campo al posto di Luciano Castellini, infortunato. Nessun gol alla prima, doti già parecchio al di là del normale: deve solo crescere e per questo va al Juniorcasale, portando il club del Monferrato dalla D alla C, soprattutto mettendosi in mostra. Come? Con un gol. Non deviato, né evitato. Ma siglato. Su calcio di rigore, dedicato a Laura, sua moglie, che nel ’75 darà alla luce sua figlia Claudia.
La svolta sembra arrivare alla Lazio, scudettata appena tre anni prima di quel 1976 che bussava prepotentemente nella sua storia. Ma è un anno tragico per i biancocelesti: Tommaso Maestrelli morirà nel 1976, Luciano Cecconi un mese dopo perderà la vita in tragiche circostanze.
Garella è il vice di Pulici. La squadra chiuderà al quinto posto e con l’arrivo di Vinicio passerà a primo portiere. Ne aveva le doti? Sì. Aveva già formato la personalità necessaria? Probabilmente no. Dopo il ko con il Vicenza alla seconda di campionato, la difficoltà incombe pesantemente in Francia, contro il Lens: è una serataccia per Garella. Da quel momento preso in giro e mortificato. Anche la stampa non andò leggera. Per il famoso giornalista Beppe Viola, gli errori dell’estremo difensore si trasformarono presto in “Garellate“.
Per fortuna, nella pagina successiva della sua carriera, all’angolo più buio arrivò la luce più forte. Nell’estate del 1978, la Lazio se ne sbarazza: va alla Sampdoria, in Serie B. Ritroverà fiducia, in tutto. E per tre anni seppe mantenere la porta blucerchiata intatta. Garella era molto, molto forte. Ma non piaceva perché non era “bello”, materiale per scrittori e sognatori. Era concreto.
Perciò andava a genio a Osvaldo Bagnoli.
Scudetti a Verona e Napoli
Garella passa allora al Verona, con cui vince il campionato di B nel 1982, con cui ottiene un quarto e sesto posto semplicemente incredibili. Due finali di Coppa Italia e… lo scudetto. Come? Sì, lo scudetto: quello del 1984-85, una vera e propria impresa.
Per la quale non solo Garella è fondamentale, ma soprattutto decisivo: in un Verona-Udinese riuscì a deviare un pallone con il gluteo destro. No, non aveva stile. Ma aveva la padronanza del ruolo e i fondamentali accentuali.
Chiedere, se si potesse, ad Hateley e al Milan di quei tempi. A L’Arena, fu lui a raccontare la parata più bella: “Non sono mai uscito così tanto in vita mia. Quando Hateley colpì il pallone mi allungai con tutto me stesso e deviai con le unghie il pallone sul palo, con la palla che mi tornò in braccio. A volte sogno ancora quella parata, in quel gesto c’è tutto il mio Scudetto. Il resto l’hanno fatto i miei compagni. Giocatori e uomini eccezionali”.
Ah: la stampa dà, la stampa toglie. Fu l’Arena a trasformarlo in “Garellik“, in particolare Valentino Fioravanti. La derivazione è presto scoperta: si ispirò alle gesta di Diabolik. Di cui Garella si nutriva ben volentieri.
Pensate che sia finita qui? Neanche Garella aveva fatto i conti con il giocatore più forte di tutti i tempi. Diego Armando Maradona, il Napoli del 1986 e un altro scudetto.
Voluto fortemente dal portiere, perché “sognavo di giocare con il più grande, e ci sono riuscito”. Ottavio Bianchi si fida di Garella e lo tiene a guardia di una porta che si rivelerà fondamentale.
Anche e soprattutto contro una Juventus fortissima: “Garella è il miglior portiere al mondo. Senza mani, però”, è un’altra delle famose battute dell’Avvocato Agneli.
Per lui, il complimento più bello, ultimo sussulto prima di un mesto saluto. Nella stagione successiva è tra gli imputati per il mancato bis: ad appena trent’anni, Garella riparte dall’Udinese, poi l’Avellino e infine un grave infortunio. A 35, ha già salutato il calcio. Anche quello piccolo.