Franco Baresi ha scritto la storia del calcio, e poi un libro bellissimo. L’ha chiamato “Libero di sognare”, giocando sul suo ruolo e sull’accezione che ha sempre avuto il gioco per lui, per il suo mondo, per ciò che è diventato.
Ecco, nei suoi racconti, oltre a pezzi impareggiabili di carriera, Baresi ha dato una definizione perfetta della sua grandezza: “Avevo delle qualità. Soprattutto una dote: la mente. Avevo la fortuna di capire il gioco e la forza mentale di riuscire a trovare stimoli per ogni partita. Oltre la vittoria, oltre le sconfitte. Avere continuità. Una volta Tassotti disse: ‘Baresi è il giocatore più continuo di rendimento’. Sbagliavo anch’io, ma il mio segreto è stato quello”.
Un segreto che poi si è rivelato, e che ha rivelato il Milan di Sacchi (e non solo) al mondo intero. Franco è stato per vent’anni il simbolo del Milan, l’ha accompagnato dagli anni Settanta fino (quasi) ai Duemila. Ed è partito ragazzino, ad appena 17 anni, ed è andato via uomo, maturo, leggenda, all’età di 37.
L’era del Piscinin
Era piccolo, e insieme ai fratelli già comandava la difesa nelle partitelle di amici. Era un ragazzo, poi, quando rimase orfano, a soli quattordici anni.
Da allora il senso di famiglia gli è rimasto attaccato addosso, come una missione da portare avanti senza mai fermarsi, alimentando ogni giorno una forza che trovava radici nel suo carattere. Franco Baresi è stato un mito non solo per le vittorie e per quanto raggiunto, ma per come ha saputo reagire agli schiaffi della vita.
Quando a 15 anni l’Inter lo chiamò per un provino – e suo fratello Beppe era già in squadra -, e fu scartato per “motivi fisici”, Baresi lavorò più forte. Quando Galbiati lo invitò allora a provare per il Milan, Baresi ci mise tre provini e alla fine riuscì ad entrare in squadra.
L’esordio avvenne a soli 17 anni, in un Verona-Milan dell’aprile del 1978. In quella stagione fece anche un paio di presenze in Coppa Italia, trovando anche il modo di scontrarsi con Albertosi e Capello, agli ultimi colpi di una carriera strepitosa.
Ma il nuovo avanzava, e cambiando atteggiamento trovò un suo posto in quello spogliatoio di campioni. Nella stagione successiva, con Liedholm in panchina, prese definitivamente il posto di Turone e vinse subito lo scudetto, il decimo della storia rossonera. Rivera fece sì che anche il ragazzo venisse premiato: era a tutti gli effetti uno di loro, e non sarebbe andato via.
Erano anni di successi, sì, ma anche del tonfo clamoroso dell’Ottanta: il Milan andò in B dopo lo scandalo totonero, e per Baresi si aprirono le strade del mercato. Lo cercarono in tanti, Franco ringraziò e declinò: il Milan era già la sua famiglia, gli aveva dato tutto e non avrebbe guardato altrove. Ecco perché quel 1981 fa ancora così male: a causa di una malattia del sangue, Baresi fu infatti a lasciare il campo per quattro mesi. Per i rossoneri iniziarono forti sbandate, arrivando addirittura alla retrocessione.
Campione del mondo, campione di tutto
Se ogni caduta può essere un trampolino per la risalita, diciamo pure che per Baresi fu un tappeto elastico: tanto forte fu il tonfo, tanto grande fu la rivincita sul destino. Temeva non potesse più giocare a calcio, arrivò nel 1982 a coronare il sogno di una Coppa del Mondo con il suo nome.
Non solo: nel 1982, Baresi ha la concreta possibilità di vestire la maglia della Juventus, che lo vuole, lo corteggia, gli consegna praticamente un futuro da nuovo Scirea. Franco, ancora una volta, sceglie la famiglia. E a soli 22 anni diventa il capitano, con un nuovo contratto e con un nuovo obiettivo: riportare il Milan al vertice, o almeno subito in Serie A.
Anno dopo anno, Baresi è il centro dell’universo dei rossoneri. Con l’arrivo di Berlusconi, anche Franco percepisce l’inizio di una nuova era, sensazione concretizzata dagli acquisti sul mercato e dai compagni che si ritrova negli spogliatoi.
Ecco, negli spogliatoi si ritrovò anche Arrigo Sacchi, e inizialmente non è che la prese benissimo. Al Salone del Libro di Torino ha raccontato quei primi momenti: “Non eravamo scettici, eravamo curiosi. Volevamo capire, ascoltare, vedere cos’avesse in mente. Non ci volle molto: la sua priorità era l’allenamento perché da lì passano certe prestazioni. Voleva che andassimo a mille all’ora, noi non eravamo abituati”. Oh, si abituò in fretta.
E dopo un inizio sofferente – “anche se non abbiamo mai avuto problemi” -, Baresi e il Milan superarono anche il Napoli di Maradona, dopo averlo sconfitto al San Paolo nella terzultima giornata di campionato. Fu scudetto. E nel 1989 fu anche Coppa dei Campioni.
E quasi Pallone d’Oro nel 1989 (vinto poi da Van Basten per soli 39 punti). Nelle stagioni successive, il Milan continuò a vincere tutto quello che c’era da vincere: Supercoppa Uefa, Coppa Intercontinentale, seconda Coppa dei Campioni.
Mancò lo scudetto, fatale il Verona di Bagnoli nell’anno del titolo della “monetina di Almeao“. E mentre tutto sembrava perfetto all’esterno, all’interno covava comunque un malcontento generale: Sacchi aveva logorato tutti, il capitano in primis.
Capello e la Nazionale
O Baresi, o Sacchi. Per tanto tempo, la storia del Milan si è fermata tra un prima e un dopo la richiesta del capitano al presidente Berlusconi.
Che sulla strada del suo Sei inserì una vecchia conoscenza, e non certamente banale: arrivò Fabio Capello ad allenare il Milan, lo stesso con cui Franco ebbe più di qualche scaramuccia sul finire di carriera di Don Fabio.
Due caratteri esplosivi, ma intelligenza enorme e quindi la concreta possibilità di fare solo il bene del Milan. Nessuno ha mai avuto dubbi, neanche gli avversari, abbattuti uno dopo l’altro. Arrivarono quattro scudetti in cinque anni, tre Supercoppe e la Champions League del 1994. Nel 1996, eguagliò il mito: Gianni Rivera.
Dopo il periodo con Capello, il Milan passò tra le mani di Tabarez e ancora Sacchi: fu quel momento lì, lì Franco Baresi capì di dover salutare tutti e appendere le scarpette al chiodo.
Giocò la partita numero 700 con il Milan e fu orgoglioso nel vedere la sua maglia, la numero 6, ritirata per sempre. In 20 stagioni con i rossoneri, Baresi ha vinto praticamente tutto, tranne il Pallone d’Oro. Berlusconi decise così di fargliene uno a parte, regalandoglielo nell’ultima partita: “Così colma l’unico vuoto rimasto in bacheca”.
E la Nazionale? Anche lì non ha fatto prigionieri. In Spagna era un ragazzo e non scese mai in campo: quella vittoria la sentì sua soltanto in parte.
L’esordio assoluto arrivò infatti più tardi, nel dicembre di quell’anno, contro la Romania a Firenze. Saltò il Mondiale del 1986 per una litigata furibonda con Bearzot, ma Vicini non poté fare a meno di lui: Europei ’88 e soprattutto Italia 1990, dove fu leader della formazione, franata in semifinale. Con Sacchi si ritrovò capitano azzurro, poi lasciò l’Italia e la ritrovò poco dopo, fino al caldo afoso di Pasadena.
A proposito di quel rigore, Baresi ha raccontato: “L’infortunio, la risalita, arrivando fino alla finale, giocando quella partita… Com’è stato possibile? Ho avuto coraggio”.
Un filo rosso che ha unito tutta una carriera. Il coraggio. Anche di piangere dopo la sconfitta in finale Mondiale, ai rigori, contro il Brasile. Si chiuse così l’epopea Baresi: libero di sognare, e di farci sognare.