Libri. Un film. Persino una serie tv.
Francesco Totti è stato un fenomeno così intenso, così intimo e pure così pubblico, che ogni mezzo possibile non ha saputo raccontare il fascino del personaggio e il talento del calciatore.
Semplicemente, non si può incastrare in un racconto. Non in qualche riga. Né nei freddi numeri, o nella calda passione della gente, per la quale Francesco era il Re e quando il Re ha dovuto abdicare ha pianto lacrime amare. Per lui e insieme a lui.
Totti è stato un ragazzo di ieri, ha mantenuto quello status perché scanzonato e attaccato al suo talento, da giovane così come più avanti con l’età.
Il soprannome non è un caso: lui è il Pupo, er Pupone, nato e cresciuto a Porta Metronia: nella Roma antica era il luogo in cui veniva depositato e pesato l’oro dei tributi, che le varie province versavano a Roma prima essere trasferite nelle casse dello Stato. Da lì Roma, a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, ha trovato un altro prezioso. Allo stesso modo eterno.
Una storia meravigliosa
Alt: non è vero che Totti abbia indossato soltanto la maglia della Roma. Non vuol dire che non sia favola ugualmente: perché prima del professionismo, il percorso di “Checco” è stato ben più particolare, ben più intrecciato alle radici e alle origini di casa sua.
La prima squadra di calcio fu la Fortitudo, poi la Lodigiani e nel 1988 Braida quasi lo porta al Milan, ma senza successo. Ha 12 anni quando Francesco è a un passo dall’approdare alla Lazio: sarà decisivo Gildo Giannini, responsabile del settore giovanile giallorosso, a convincere i genitori a scegliere la Roma.
Dopo un primo e già pesante incidente diplomatico, Dino Viola, il presidente, risolse il contenzioso con 300 milioni di lire e due calciatori alla Lodigiani.
Per Francesco era il Paese dei balocchi: aveva sempre sognato quei colori. Amava alla follia Beppe Giannini, il capitano e numero dieci. A 15 anni iniziò a collezionare ricordi preziosi, vincendo lo scudetto con la formazione Allievi.
Nel 1992-1993, la storia si è fatta nel tempo parecchio nota: Vujadin Boskov, su suggerimento di Sinisa Mihajlovic, lo fa esordire a 16 anni in quel 28 marzo 1993 e in quel Brescia-Roma 0-2.
Da titolare, poi indiscusso e inamovibile, sarà tutta opera di Carlo Mazzone: saranno gli anni dell’affermazione, dei primi gol, dei primi boati. E di una promessa che inizia a sventolare, insieme ai bandieroni della curva: Roma, da Porta Metronia, ha nuovamente riscosso un tributo. Stavolta dal destino. E non va sprecato.
Passano gli anni, passano gli allenatori. Passa persino un numero di maglia: Giannini nel frattempo ha salutato, non senza qualche rimpianto; Francesco è lì e ci resta anche quando nel 1997 i rapporti con Carlos Bianchi non sono certamente distesi.
Alla fine, vincerà lui: Bianchi saluta, Liedholm entra, e poi è il turno di Zeman. Della consacrazione. E della numero 10, data su suggerimento dei compagni di squadra. Sembrava il massimo, ma il carico da novanta l’aggiunse Pluto Aldair, un uomo di cui fidarsi sempre: a soli 22 anni, sarebbe diventato il capitano della sua Roma.
La sublimazione del Pupone
Anche qui: le leggende sono tante, però non è difficile immaginare lo scetticismo nei confronti di Totti, capitano e leader designato di una squadra ancora troppo altalenante.
Su Francesco pesavano due incognite molto differenti eppure ugualmente stringenti. Intanto: qual era il suo ruolo? Trequartista? Seconda punta? Avrebbe giocato centravanti o addirittura esterno? Nessun allenatore riusciva davvero a trovargli una collocazione tattica: lui svariava su tutto il fronte offensivo, si prendeva palla e distribuiva palloni e osservazioni.
Seconda questione: aveva un carattere fumantino, sarebbe stato in grado di gestire e predicare calma nei momenti topici? Col tempo ha imparato: nessuno poteva pretendere tutto ciò a soli 22 anni.
Serviva allora una guida da caos calmo, l’unico in grado di ovattare i bollori di Roma, di una piazza dalle pressioni atroci e dallo sguardo funesto se le cose non girano.
Fabio Capello fu perfetto: aveva vinto con Milan e Real Madrid, era arrivato a Roma con la certezza di poter costruire una squadra forte e tutta attorno al suo numero 10. Primo anno: tanti infortuni, eppure 8 gol e il premio di miglior giovane.
Nel 2000, l’arrivo di Batistuta e il cambio – netto – di marcia, culminato con lo scudetto che liberò Totti da ogni male, consegnandolo a un racconto eterno tra le strade della Capitale. Era così giovane eppure così risolto, era così un ragazzo eppure già al centro di qualcosa d’enorme.
La grossa sensazione si trasformò presto in illusione: Roma sembrava destinata a dominare per anni. Poi ci fu il ritorno della Juventus. Quindi delle milanesi. Francesco fu l’unico punto fermo di più rivoluzioni, qualcuna illuminata, qualcuna meno.
Almeno, negli anni successivi, ancor prima di tornare a lottare per il titolo con l’Inter, Totti riuscì finalmente a coprire un ruolo con continuità: la maturazione fu completata da centravanti, ruolo coperto per oltre 15 anni.
La media realizzativa s’incrementò in maniera considerevole: 14 reti nel 2003, 20 gol nell’anno successivo. Nel 2005 superò Pruzzo e nel 2007 riuscì persino a battere il suo record personale di gol, segnandone 26 in campionato e 32 in stagione.
Nessuno più di lui in Europa: la Scarpa d’Oro fu un traguardo che anni prima non avrebbe mai immaginato.
Di forza, nella storia
Due Coppe Italia, la seconda Supercoppa: dal 2005 al 2008, con Spalletti principalmente, furono gli anni di Totti a tutto campo. Guida tecnica e spirituale di una Roma costantemente alla ricerca di una propria dimensione. Ma anche d’infortuni, per il capitano. Come quello alla caviglia qualche mese prima del Mondiale di Germania (decisivo anche lì, ricorderete), o come la lesione del legamento crociato anteriore poco prima della finale di Coppa Italia del 2007, contro un’Inter semplicemente imbattibile.
Ecco: il Pupo non la giocò, ma alzò ugualmente il trofeo al cielo.
Con la felicità di un bambino strappò pure il record di Amedeo Amadei, semplicemente inarrivabile nel suo essere il miglior realizzatore della Roma di tutti i tempi: servirono 175 gol in Serie A, fu necessario l’ingresso nella top 10 della classifica dei marcatori del campionato di calcio italiano.
Fu anche l’anno dello scudetto sfiorato, quel 2009. E della grande delusione, che si fece contraccolpo nelle stagioni successive, nonostante i gol – tanti gol – sempre di Totti, sempre del capitano.
Nel 2014, lo sfizio di scrivere pure la storia in Champions: diventò il marcatore più anziano. L’11 gennaio 2015, arrivò l’undicesimo gol nei derby (40): solo Dino da Costa come lui.
Ecco, tutto questo a 39 anni. La fine per ogni calciatore, non per Francesco. Unico anche in questo.
Nel 2015-2016 c’è il ritorno di Spalletti: sembra una passione da rinsaldare, e invece è un muro contro muro, pochi minuti, tanta sofferenza. Nonostante questo, riesce a ribaltare un derby che gli vale ancora un anno di contratto.
Mesto, triste, eppure condito dagli applausi in ogni stadio d’Italia. Pure in quelli in cui non aveva preso altro se non fischi.
È stato il terzo giocatore a toccare quota 600 partite in Serie A dopo Maldini e Zanetti.
Il 28 maggio 2017, contro il Genoa, l’ultima partita con la maglia della Roma. Da brividi.