Quando seguiamo una partita di calcio quasi sempre siamo presi dall’agonismo e dal gioco, impegnati più a fare il tifo che non a ragionare su quanto le leggi della fisica stiano interagendo con le azioni dei nostri beniamini.
Eppure ogni dinamica del calcio giocato è soggetta a queste leggi e qualsiasi protagonista in campo ne conosce bene se non proprio le formule, le applicazioni pratiche. Lo sapeva il maestro Andrea Pirlo quando ha creato quella splendida traiettoria su punizione che hanno poi chiamato “la Maledetta“, e lo sapeva probabilmente anche Mariolino Corso quando ha fatto conoscere al mondo il tiro “a foglia morta“.
La punizione a foglia morta di Mario Corso
Mario Corso è sicuramente uno dei calciatori più importanti della storia del calcio italiano. Bandiera dell’Inter e della nazionale era un centrocampista atipico, più votato all’estro e alla fantasia che non al rigore tattico.
E ne aveva ben donde tanto che grazie al suo piede fatato e il suo talento, tutti iniziarono a chiamarlo “Mandrake” per quella qualità quasi magica di mettere sempre il pallone dove voleva lui.
Lanci millimetrici da una parte all’altra del campo, passaggi tra le linee a imbucare i suoi compagni e soprattutto quell’incredibile capacità di mettere la palla in rete nei calci di punizione.
Un tiro che solo la sua classe faceva apparire facile: poca rincorsa e il pallone che inesorabilmente passava sopra la barriera per poi ricadere in porta nella zona non coperta dal portiere. Era nata la punizione a “foglia morta”.
La fisica della “foglia morta”
Come detto qualsiasi cosa di questo mondo deve seguire le leggi della fisica. E anche in quel gesto tecnico di Corso ci sono spiegazioni precise per delineare la traiettoria del pallone.
Partiamo dal presupposto che in quegli anni i palloni utilizzati non erano quei gioielli di tecnologia che troviamo ora in campo. Più pesanti, meno soggetti a subire effetti e certamente meno facili da direzionare.
Queste caratteristiche richiedevano un tocco particolare sul pallone, ben diverso per esempio da quello che il suo erede Pirlo imprimeva al pallone nella sua “Maledetta“. Ciò nonostante, i principi fisici su cui si basa il movimento sono sempre gli stessi.
Il pallone in questo caso seguiva una traiettoria praticamente lineare in fasce di ascesa, alzandosi sopra la barriera, per poi scendere successivamente nel lato scoperto dal portiere. Il tiro non ha un grande “effetto” orizzontale, quanto piuttosto verticale: sale e poi scende subito dopo.
Diventa necessario quindi colpire il pallone già con una forza impressa dalla rincorsa più o meno angolata, insieme a una posizione del corpo più o meno inclinata a seconda di quanto è necessario alzare la palla sopra la barriera.
In pratica le prime cose a cui fare riferimento sono necessariamente la distanza dalla porta (quindi l’inclinazione del corpo e la relativa potenza per andare oltre la barriera in fase di ascesa del pallone) e l’angolazione della rincorsa in modo da colpire il pallone con la giusta direzione verso la porta.
Questo è quello che Mario Corso faceva più o meno coscientemente ogni volta che si apprestava a una punizione vicino alla porta avversaria. Poi, buon per lui, entrava in gioco la fisica.
E qua torniamo a quello che viene definito “effetto Magnus“, che si applica ogni qual volta al pallone viene impressa una certa rotazione. In questo caso, la palla colpita con l’interno del piede e con il corpo in quella postura, portava a una rotazione sull’asse orizzontale.
La differenza di pressione tra la parte superiore del pallone e quella inferiore, faceva così in modo che dopo la fase ascensionale rettilinea dovuta alla forza impressa dal colpo, successivamente la palla riceveva più spinta verso il basso di quella della sola forza di gravità, finendo per avere il classico effetto a caduta.
Per questo non era necessaria nè una rincorsa particolarmente lunga, nè imprimere una grande forza sul pallone: serviva esclusivamente quella necessaria a farlo alzare sopra la barriera, per poi essere preda delle leggi della fisica che lo avrebbero trascinato verso il basso.
Se la forza era giusta, se la direzione era giusta, se l’equilibrio era giusto… allora era gol!
La foglia morta sul campo
Tra i tanti gol di Mario Corso e le tante punizioni calciate, ce n’è una che forse più di tutte rappresenta quel modo davvero particolare di mettere la palla in porta.
Siamo nel maggio del 1965 e di fronte ci sono la grande Inter di Helenio Herrera e un Liverpool che era riuscito a vincere per 3-1 la gara di andata della semifinale di Coppa dei Campioni.
Serve un mezzo miracolo ai nero azzurri, che però già all’ottavo del primo tempo sbloccano la partita. Mario Corso si aggiusta la palla per una punizione dal limite. Fa qualche passo indietro e poi con la sua solita breve rincorsa piazza la palla oltre la barriera nell’angolo dove Lawrence non può arrivare.
Passa un minuto e Peirò mette anche il 2-0. Una notte magica per l’Inter che con Facchetti porterà poi a casa vittoria e passaggio in finale. Con il seguito che già conosciamo: vittoria contro il Benfica per 1-0 e seconda Coppa in bacheca.