Partiamo da un assunto che sembra banale, e invece è tutta la storia: erano cinquantacinque anni che la Fiorentina non retrocedeva in Serie B.
55 anni che Firenze non aveva il cuore spezzato, soprattutto per com’era partita l’annata precedente. In panchina, Mario Cecchi Gori aveva scelto una certezza della categoria come Gigi Radice. Dopo 13 giornate, la Viola era seconda in classifica, alle spalle del Milan, a pari punti con Inter e Torino.
Poi la decisione: Radice esonerato, Aldo Agroppi in sella per la sostituzione. Dal sesto posto firmato Radice, si arriva in uno schiocco di partite agli ultimi posti. Poche partite alla fine, tre vittorie e nove pareggi, soprattutto otto sconfitte nelle ultime venti giornate. Nelle battute finali, Chiarugi e Antognoni cercarono di salvare il salvabile in panchina: non ci riuscirono, non evitarono l’inevitabile.
Il 6-2 con il Foggia aveva sì dato la vittoria, ma l’Udinese, pareggiando con la Roma, le aveva soffiato l’ultimo posto disponibile in Serie A. Che beffa.
Risollevarsi dopo la retrocessione
Sì, erano passati 55 anni dall’ultima volta in cadetteria.
Era la prima volta che Cecchi Gori, non esattamente il presidente più navigato, si trovava di fronte una situazione di subbuglio e attesa, pentimento ma anche voglia di riscatto.
Il primo gesto? Chiamare un allenatore sul quale nessuno avrebbe avuto da ridire, che non è lo sport più facile se gestisci il destino della Fiorentina. La scelta del patron è sul giovane, già affermato, Claudio Ranieri.
Due anni prima era stato chiamato a guidare il Napoli senza Maradona, portandolo comunque al quarto posto. Adesso avrebbe avuto un impegno niente male, a stretto contatto con la storia di una squadra gloriosa.
Il vero obiettivo di Cecchi Gori, però, è sostanzialmente un altro: non può permettersi di fallire il ritorno immediato in Serie A. Non lo merita la piazza, non può tollerarlo economicamente e con la squadra che solo un anno prima aveva creato con ambizioni europee.
Anche il tecnico coglie la palla al balzo: può essere terreno fertile per dare esperienza, minuti, gioco a un po’ di giovani in rampa di lancio. Del resto, basta guardare l’elenco per capire che di materiale grezzo la Fiorentina non era sprovvista: Toldo, Robbiati, Flachi. C’era Stefano Pioli, oggi allenatore del Milan. C’era soprattutto Gabriel Omar Batistuta: già centrale, non ancora il fuoriclasse che abbiamo conosciuto e apprezzato.
A capitanare il gruppo, un cuore grande come quello di Beppe Iachini. La squadra aveva solo due stranieri, il resto era totalmente e tipicamente italiana: nel contesto però si erano inseriti alla perfezione Stefan Effenberg e appunto Batistuta.
Ecco, diamo uno sguardo proprio alla rosa, a partire dalla fiducia data a Toldo, in grado di togliere il posto a un portiere già affermato come Mareggini (oggi preparatore degli estremi difensori dell’Under 21 azzurra).
In difesa c’erano assi da novanta: Pasquale Bruno valeva già il biglietto dei tifosi, poi la qualità di Pioli, i vent’anni di D’Anna, le certezze Malusci e Carnasciali, e soprattutto Gianluca Luppi: era arrivato dalla Juve del Trap per 5 miliardi, provò a mantenere le promesse.
La qualità dal centrocampo in su
Daniele Amerini, e va bene. Massimo Orlando, okay. Poi, nell’ordine: le geometrie di Zironelli, la corsa di Giovanni Tedesco, la garra di Iachini e i gol di Effenberg, spesso decisivo in gara che erano necessariamente da chiudere.
In molti, a prescindere dal numero impressionante di talenti d’attacco, ritengono che il vero segreto di quella Fiorentina di Ranieri consistesse nel centrocampo robusto, eppure fluido; in grado di tenere un così alto profilo offensivo, ma allo stesso tempo di proporre e di giocare, con naturalezza.
A proposito della fase offensiva: probabilmente neanche la Juventus del post Calciopoli, che pure aveva Del Piero, Nedved e Trezeguet, ha avuto un reparto così forte e così completo.
Si parte da Francesco Flachi, ai tempi giovanissimo e già tremendamente imprevedibile, si prosegue dalla scoperta di Anselmo Robbiati. Proprio Robbiati, per sei anni a Firenze salvo poi vestire le maglie di Napoli e Inter senza successo, era il simbolo della rinascita fiorentina, di una speranza che il tempo, anche poco tempo, avrebbe ridato a Firenze tutto ciò che la retrocessione aveva tolto.
Ovviamente, diventava fondamentale il gruppo, lo era di sicuro il lavoro di Banchelli: fiorentino di Vinci, il primo a fare gol in quella squadra nella vittoria al debutto, al Renzo Barbera di Palermo.
Oh, poi Ciccio Baiano ed Eddy Baggio, l’ultimo Baggio a Firenze, non ce ne vogliano: l’immagine di quel reparto non può non essere il ruggito del Re Leone.
Gabriel Omar Batistuta, alla terza stagione in viola, non tradì attese e aspettative, non cambiò idea nonostante la Serie B. Era già affermato, sebbene non affermatissimo: dopo un paio di stagioni di rodaggio, probabilmente quello step all’indietro fu decisivo anche per lui. Lui che infilò 19 reti in stagione, 16 in campionato. Diventando capocannoniere.
Una stagione mondiale per Batistuta
Dal primo gol al Brescia, su rigore, il 25 settembre, Batistuta segnò con il Pisa (tripletta), Ancona (doppietta), Verona, Monza all’andata; al ritorno, Palermo, Venezia, Cosenza, Brescia, Fidelis Andria e Ascoli. Regolarità importante, supporto fondamentale di Effenberg (7 reti a fine stagione) e di Robbiati, a quota 6.
La Fiorentina però era Gabriel Omar, che sognava la maglia dell’Albiceleste e sognava d’indossarla per fare così bene da farsi notare soprattutto in Serie B. Beh, ci riuscì. Eccome. Anche grazie a tutti i gol decisivi per la selecciòn, in particolare nello spareggio decisivo con l’Australia.
Batistuta fu convocato in un’Argentina fortissima, ma quasi di fortuna: si era qualificata nell’ultima giornata disponibile, da ultima delle 24 squadre partecipanti. Prese la 9, di fianco al suo 10, Diego Maradona. La storia è conosciuta e riconosciuta. Quella di Diego così come quella di Batigol: quattro reti in totale per il bomber viola, tre all’esordio contro la Grecia.
Sembrava l’inizio di un sogno, si rivelò ben più complicato in quel 3 luglio. Guai a ricordargli degli ottavi di finale persi contro la Romania.