Anche nell’ultimo scontro, quello che probabilmente è costato la panchina a Massimiliano Allegri, c’è stato qualcosa di mistico. Non è mai stata una questione impari: è stato un percorso che sapeva raccontare, smistare, narrare un pezzo di storia calcistica. Qualche mese fa, l’Ajax arrivava da Davide ai quarti di finale di Champions contro la Juve in versione Golia. Tanto grande, ma così fragile.
Come oltre vent’anni fa, il risultato non è mai stato scontato. Anzi: ha decretato l’inizio e la fine di un percorso. Nel ’96, la fine fu del ciclo dei Lancieri, arrivati al massimo splendore e al termine di un ciclo di giocatori semplicemente incredibili; l’inizio invece era tutto della Juve: tra finali maledette, grandi cavalcate, e quell’Alex Del Piero che imparava sempre più a essere decisivo. E nella storia del club.
Verso il 22 maggio bianconero
Fu una Champions strana. Ma l’Ajax aveva l’orgoglio di chi, appena un anno prima, aveva schiodato gli italiani e gli spagnoli dal trono dei migliori. Nel 1995, i biancorossi avevano vinto la Coppa dei Campioni in maniera spettacolare: bellissimi e duri, estetica e purezza del calcio. Avevano battuto il Milan di Capello ed erano riusciti a mantenere un’ossatura di assoluti fuoriclasse. Un po’ di nomi: Davids, poi Kanu, Litmanen. C’erano i fratelli de Boer e Patrick Kluivert, con van der Sar fisso in porta. In panchina, un maestro come van Gaal.
La Juve era stata appena cullata da Marcello Lippi, l’uomo con gli occhi di ghiaccio alla Paul Newman (di cui vi parliamo qui): arrivato quasi da sconosciuto, al primo anno aveva fatto centro in una Serie A costellata da miliardi e campioni. Aveva una rosa forte, fortissima: Ravanelli col talento del gregario, Deschamps con il metronomo in tasca, l’invenzione di Paulo Sousa. Poi, l’attacco di potenza e qualità: Vialli è stato a lungo tra i centravanti più forti d’Italia, Del Piero semplicemente tra i migliori di sempre.
Una lunga attesa, fino a quel 22 maggio. Con una premessa: nel ’96 si ebbe una delle ultime edizioni della Champions con una sola squadra per paese. Ciononostante, senza una vera concorrenza interna, per la Juve non fu più facile scollinare tutti gli ostacoli sul proprio cammino. E no, perché c’è sempre lo zampino della sorte e di quello che sa mostrarti lungo quella corsa campestre che è lo spettacolo più bello di tutti. Per capirci: ai quarti, Juve batte Real Madrid e Ajax distrugge Borussia Dortmund (fortissima, all’epoca); in semifinale, i bianconeri superarono facilmente il Nantes, mentre i Lancieri chiusero la pratica Panathinaikos.
L’epilogo
E’ una finale scritta, a un certo punto. Scritta non solo dai risultati, ma dalla storia del calcio. Tra Ajax e Juve resisteva un vecchio conto in sospeso: erano gli anni Settanta ed era un altro calcio. La squadra alle dipendenze di Cruijff aveva segnato un solco su tutto ciò che era il pallone, segnando un prima, definendo un dopo. La data simbolo fu proprio quel 30 maggio del 1973, in cui Johan batté Zoff, Bettega, la Juventus che dominava senza pietà in Italia. Segnò Johnny Rep, che i poco studiosi avranno riposto nel cassetto dei nomi sentiti ma mai entrati dentro. Cinque minuti bastarono all’Ajax per vincere la Coppa. Terza volta di fila.
Il contorno della Champions, per la Juve, già ai tempi si faceva incubo. Inevitabile: l’ultima e prima volta fu nel 1985, dentro la tragedia dell’Heysel. Il vantaggio di giocare in Italia, all’Olimpico di Roma, quasi metteva più pressione, liberava più fantasmi. Ecco perché i ragazzi di Lippi decisero di partire forte, di avere anche solo l’illusione di controllare il gioco. Al 13’ Frank de Boer respinge male di testa un pallone diretto in area. Ravanelli è un rapace, salta de Boer e sguizza su van der Sar; defilato, calcia da destra verso la porta guardando Silooy arrivare in scivolata. Era troppo tardi, per lui. Troppo presto, forse, per il vantaggio della Juventus.
Sì, perché i Lancieri misero lo scudo a protezione e iniziarono la loro partita. Peruzzi fu fondamentale in due frangenti, anche perché gli olandesi impararono a fare densità in area di rigore e a mettere in difficoltà pure la marcatura a uomo che imponeva Marcello Lippi. Quando il primo tempo si esauriva insieme ai sospiri dell’Olimpico, ancora de Boer calcia una punizione da destra. Peruzzi smanaccia, ma la palla finisce a Litmanen: contrasto e tiro. Pari Ajax.
Per una volta, benedetti rigori
Nella ripresa, la paura era più forte della voglia di vincere. La Juventus non riuscì a scrollarsi di dosso la persecuzione di un contropiede sbagliato, di un’uscita errata, del fianco necessariamente mostrato dall’esposizione. Ognuno a difesa del suo fortino, quasi noncuranti del bottino al di là del centrocampo avversario.
Niet. Nada. Nella ripresa, nessuna delle due squadre produsse un’azione concretamente pericolosa. Del Piero e Vialli, fosse andata male, avrebbero sulla coscienza un paio di palle interessanti: ma nulla di davvero preoccupante per Van der Sar, che fiutò prima di tutti come sarebbe andata a finire. Del resto, i supplementari furono lo specchio del secondo tempo. E lo spettro dei rigori a un certo punto fu quasi un dono divino, un ultimo e incredibile brivido d’emozione.
Maledetti rigori. Ancora. L’incubo dei Mondiali precedenti chiudeva gli stomaci dell’Olimpico. Quelle sono ferite d’ansia che mai riescono a ricucirsi, neanche con le vittorie successive. Però questa volta sono benedetti per i colori bianconeri.
Parte Davids e para Peruzzi. Gol Juve, sempre e solo gol Juve. Fino a Silooy: ancora Peruzzi. E’ finita, e la Juve è campione d’Europa sotto il cielo di Roma. Mai stata così bianconera, neanche nei film di Fellini.