C’è stata un’epoca, non troppo lontana, nella quale il derby di Roma valeva uno scudetto.
Il derby capitale in orbita scudetto
Non quindi, ‘semplicemente’, il primato cittadino, né una Coppa Italia – che pure rimane un evento epocale nella rivalità tra queste due squadre –, ma il tricolore da cucire sul petto di chi meglio dell’altra aveva saputo rappresentare la capitale d’Italia, nonché caput mundi. Parliamo degli anni che vanno a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, un’età di passaggio anche per le due squadre di Roma – nonché del calcio italiano in generale.
Cosa era accaduto, prima? Che o la Roma (durante la Seconda Guerra Mondiale e, poi, nel 1983) o la Lazio (1974) avevano vinto senza la molesta opposizione dell’altra sponda del Tevere, per una ragione o per un’altra. A metà degli anni Novanta però prima la Lazio – con Cragnotti – poi la Roma – dei Sensi – danno una sterzata economica importante alle proprie società, che investiranno cifre tanto alte da portare nell’un caso alla bancarotta, nell’altro a debiti ancora oggi gravosi per le casse del club.
L’inizio dello splendore dei derby di Roma è databile alla stagione 1998/99. L’anno prima la Roma si era piazzata quarta, la Lazio settima, ma i biancocelesti venivano da un secondo, un terzo e un quarto posto, dimostrando di poter stare nel gran galà del calcio italiano.
Il derby del 3-3
La stagione che precede lo scudetto dei biancocelesti è ricca di emozioni, pure troppo se è vero che, tra assurdi episodi arbitrali e un calo evidente della squadra di Eriksson nel girone di ritorno, il 1999 è ricordato dai laziali come l’anno dello scudetto mancato. Fu il Milan a toglierlo ai biancocelesti, ma nel girone d’andata ci aveva pensato la Roma a mettere in grande difficoltà il cammino dei cugini: è il memorabile derby finito 3-3 del 29 novembre 1998. Un derby folle perché ricco di ribaltoni, papere, prodezze. Per chi è poco avvezzo alla stracittadina romana, è bene sapere che – nella varietà non pronosticabile cui è soggetto il calcio e in particolare una partita del genere – questa partita solitamente segue due schemi: o è bloccata e viene decisa da una prodezza, o un grave errore, di una delle due compagini, o si stappa come Champagne a festa, spumeggiando in folli risultati.
Quello del 29 novembre ’98 è decisamente un derby di quest’ultima natura. La Lazio arrivava a quell’appuntamento dopo quattro derby di fila vinti, ma era stata la Roma a passare in vantaggio (con merito) grazie al gol dell’ex Inter Wome. La Lazio aveva reagito due minuti più tardi con Mancini, su assist di Mihajlovic, per poi portarsi sul 3-1 nella ripresa grazie alle reti ancora di Mancini e poi di Salas su rigore. La Roma rimane persino in dieci e tutto lascia pensare alla cinquina dei biancocelesti nella stracittadina. Neanche per sogno: la squadra di Zeman non si sa come reagisce di nervi e, complice un pasticcio tra Nedved e Marchegiani, i giallorossi vanno sul 3-2 con Di Francesco. Per poi pareggiare con Totti e rischiare persino di vincerla sul finale, ma Delvecchio è pescato in offside da Farina: l’unico vero equilibratore in una sfida affetta da bipolarismo.
Il derby scudetto della Lazio
Gran parte di quel gruppo, nella Lazio s’intende, si rifarà di quei due punti buttati l’anno successivo, stagione 1999/2000, che è quella del centenario per la Lazio e anche del secondo agognato scudetto.
In sella c’è sempre Eriksson, ma il 25 marzo del 2000 – dopo che all’andata la Lazio si era vista sfuggire un’altra vittoria –, è un’altra musica. Nonostante venisse da un momento difficile, dopo la sconfitta a Verona, la Lazio viene rinfrancata alla vigilia dell’importantissimo derby dal risultato della prima della classe, sua predecessora, la Juventus. La quale era stata battuta a San Siro dal Milan (2-0).
Nello spogliatoio dei biancocelesti campeggia una frase, scritta con la penna, il sangue e il cuore da Sinisa Mihajlovic, che male aveva gradito certe frasi dei cugini dopo il derby d’andata: “A volte le aquile scendono al livello delle galline, ma una gallina non potrà mai volare in alto come un’aquila”.
E così è, infatti. Anche perché la Lazio quella partita la vince non in scioltezza, ma rimontando i giallorossi: al 3’ è già vantaggio Roma con Montella, l’aeroplanino. Altro che aquile, la Lazio accusa il colpo e prende le sembianze della gallina. Ma si ricorda dell’animale che simboleggia. E va all’arrembaggio prendendo coraggio alla distanza: 1-1 di Nedved al 25’, 2-1 di Juan Sebastian Veron al 28’, tre minuti dopo, con una punizione destinata a rimanere iconica del derby di Roma. Finirà così, e la Lazio a fine anno vincerà il tricolore.
I Derby giallorossi, dallo scudetto alla manita
Che però l’anno dopo, come noto, sarà la Roma a strappare ai cugini. Siamo all’apice del derby di Roma, per valori in campo, emozioni sugli spalti e sfide a distanza anche in Europa – dove la Lazio vince in due anni Coppa delle Coppe e Supercoppa europea. Nella stagione 2000/01, dopo il grande sforzo dei Sensi, alla corte di Capello arriva Gabriel Omar Batistuta, decisivo per il titolo e a segno pure nel derby di ritorno, che si giocò a fine aprile.
Mancava poco così, alla Roma, per assicurarsi il titolo. E il 2-0 siglato Batistuta e Delvecchio sembrava aver spianato la strada in tal senso. Poi però, tutto improvvisamente cambia. 18 minuti di pura follia, simili per intensità al derby di tre anni prima finito 3-3. Nedved riapre i giochi, Castroman (al 91’) li chiude. Nell’immaginario collettivo, la sua staffilata da fuori area a bucare i guantoni di Antonioli è un gol-vittoria. Pareggiare così un derby del genere significa vincerlo.
Poi la Roma, comunque, vincerà il suo terzo scudetto a fine anno, dimostrando di essere una squadra forte soprattutto mentalmente. E capace, appena un anno dopo, di infliggere una lezione pesantissima – e che ha un unico precedente negli anni Trenta del Novecento – ai cugini: parliamo del celeberrimo derby della cinquina, Lazio vs Roma 1-5 del 10 marzo 2002.
È il derby di Montella, che «cancella Batistuta» (si legge sui giornali il giorno dopo) e la Lazio. Il primo non si era accomodato neanche in panchina quando Capello gli aveva annunciato che l’aeroplanino avrebbe preso il suo posto dal 1’ nel derby: lui aveva risposto segnando quattro gol (al 12’, al 29’, al 36’ e al 63’). La seconda, assente mentalmente e tatticamente, riceverà una calorosa accoglienza a Formello dalla squadra il giorno dopo, in un clima da guerra vera. Il gol dell’1-5 lo segnò un simbolo della città e del derby: Francesco Totti, che realizzerà una delle reti più bella nella storia della stracittadina, con un pallonetto dolce e maestoso da fuori area. Sembra passata una vita, è già di nuovo il derby di Roma.