Ai tempi di Dejan, Podgorica era Titograd. E Tito era il simbolo di un paese dilaniato, unito da un nome ma internamente nel pieno di emorragie difficili da frenare. In un contesto di guerra – guerra civile – lo spazio al calcio era spazio vitale. Era un attimo in cui sparivano le preoccupazioni e si alimentavano le speranze di un futuro diverso, quasi sempre lontano da quegli scenari, quasi mai avverato se non in possesso di un talento enorme, grandioso, il più pulito di tutti. Ecco, non è un caso che il miglior amico di Savicevic, ancora oggi, sia Zvone Boban: entrambi hanno incarnato sostanza e apparenza. Nel tumulto quotidiano, hanno abbracciato il dono del talento e l’hanno fatto proprio, continuando a lavorare più duramente, superando i momenti più difficili (compreso il periodo militare, anche questo insieme) e trasformando il sogno in realtà. Alle spalle, una situazione drammatica. “Ma non parlavamo quasi mai della guerra, preferivamo altre cose”. Preferivano giocare.
Dejan Savicevic oggi è il presidente della Federazione calcistica del Montenegro: è tornato a casa e non ha mai avuto intenzione di fare altro. E’ stato probabilmente il miglior giocatore montenegrino di sempre ed è stato persino l’allenatore della Jugoslavia, dal 2001 al 2003. Nel 2003, ha vissuto da CT la scissione in ‘Serbia e Montenegro’. Poi, quella tra Serbia e Montenegro.
Il Genio
Ha superato ogni giornata storica con l’arguzia che lo ha sempre contraddistinto. Del resto, lo chiamavano ‘Genio’ non a caso e anche perché sapeva infilarsi ovunque, per scappare dalle difese o da chi voleva dargliele. Il padre Vladimir, capostazione, lo portava spesso ai piedi della stazione: l’obiettivo era impartirgli etica e disciplina, Dejo se ne scappava a gambe levate finché non trovata un prato verde, un pallone, i soliti amici. Ed era bravo, certamente il più bravo. Difficile da contenere (“se non avessi fatto il calciatore, avrei avuto un futuro da tagliagole”) ma valeva la pena provare a imbastire un futuro in campo.
Passa allora all’OFK di Titograd, cresce e c’è il Buducnost, che vuol dire proprio ‘Futuro‘. A 16 anni, il debutto nella serie A montenegrina. Nel 1984, diciottenne, era già il trascinatore, quello dai piedi ‘superiori’ e da ultimo passaggio, quello degli scatti improvvisi e dalla giocata sopraffina. Quello che vince le partite da solo: perché c’è sempre un giocatore così e spesso arriva una volta ogni vent’anni. Ecco, nella generazione d’oro, dal primo grado di est Europa arrivava un testone riccioluto dalla faccia cattiva. Sarebbe stato perfetto per i film d’azione, di quelli dal finale non scontato. E invece è stato perfetto per la Stella Rossa, a partire dal 1988. Lì diventa la “Stella della Stella” e ha appena 22 anni. L’Italia lo conosce il 31 marzo 1988: amichevole con la Jugoslavia, Savicevic illumina i suoi e incrocia per la prima volta Paolo Maldini, al debutto con la nazionale maggiore.
I due si rivedranno presto, molto presto. Il Milan troverà la Stella Rossa in Coppa Campioni: a San Siro, solo un pareggio; a Belgrado, nebbia fitta e paura altissima. Al 5′ della ripresa, Savicevic trascina i suoi con una botta dai venti metri. Qualche minuto più tardi, l’arbitro sospende la partita: si sarebbe rigiocata il giorno dopo. Dejan sbaglia un’azione clamorosa, Van Basten colpisce e Stojkovic porta la partita ai rigori. Galli è l’eroe: para due rigori, di questi uno è a Savicevic. Il Milan di Sacchi, superato il Genio, vincerà la Coppa a Barcellona contro la Steaua.
La grande occasione
Dovrà aspettare tre anni, Savicevic, per rivedere la possibilità di vincere quella Coppa tanto sognata. La Stella Rossa, a Bari, batte il Marsiglia ai rigori e Dejo è superlativo. Lo vuole la Juve, ci pensa il Real Madrid. Lo prende Berlusconi, innamorato folle di quel suo movimento in velocità, dal nulla, che sembrava un colpo di genio. Pardon: il colpo del Genio. Nel 1991 meriterebbe anche il Pallone d’Oro, ma il premio va al francese Papin, centravanti del Marsiglia. “Mah, non mi sembra molto giusto”, il commento più lungo della storia di Savicevic. Che per nove miliardi di lire, una casa e 800 milioni all’anno e tanti altri premi, si veste del rossonero Milan. Il Milan più forte di sempre.
Nell’estate del 1992 è il grande colpo dei rossoneri di Capello, fresco vincitore dello scudetto. Al suo fianco, Van Basten, Gullit e Rijkaard. Poi Papin e l’amico Boban, di ritorno dal prestito al Bari. A Milanello sono fieri: l’hanno strappato all’Avvocato e non era operazione semplice. Anzi. Ma il primo anno è complicatissimo: gioca poco e Capello dimostra di non aver bisogno di lui per vincere (facilmente) un altro scudetto. “Un incubo”, lo definirà Savicevic. Ma rifiuterà qualsiasi altra opzione che non sia definitiva: “Altrimenti resto e gioco”. Ecco, giocare. Quei momenti di follia, poco lucida, erano sempre legati alla possibilità che non partisse dal primo minuto: celebri le sue sfuriate con il commissario tecnico Osim. “Mi vuoi fuori? Vai tu in panchina, ci sei abituato”.
Ecco, con Capello non c’è traccia di storia simile. Non sarebbe inverosimile, comunque. Nella seconda stagione, parte forte con due gol alla Ternana, a Pescara aiuta Lentini e poi? Accantonato. Messo da parte. Dejo si chiude in se stesso, Milano era la realizzazione e invece si è trasformata in un dramma.
Solo Berlusconi è al suo fianco: “È una mia scommessa, come quella di Sacchi e quella di Capello. Hanno vinto tutto, vincerà anche Dejan“. Dopo la celebre sconfitta di Marsiglia, Gullit passa alla Sampdoria, Rijkaard torna ad Amsterdam e Savicevic, beh, Savicevic resta. Capello ora vuole puntarci. Ma i primi tempi sono comunque complicati: non ha un posto in campo, né nel cuore dei tifosi. Dunque il tecnico lo relega nuovamente fuori, ma Dejan non ci sta: si rifiuta e si arriva alla rottura. “E pensare che per tenere questo abbiamo ceduto Gullit”, filtrerà dal tecnico. Ancora Berlusconi al suo fianco. Poi l’infortunio di Simone, Papin smarrito e Savicevic adattato a seconda punta. Cambia tutto.
Quell’altra Coppa
Anno 1994. Il Milan vince il terzo scudetto consecutivo, ad Atene giocherà la finale di Champions contro il Barcellona. Dura, durissima. Mancano Baresi e Costacurta e dall’altra parte c’è quel giocattolo perfetto costruito da Johan Cruijff, protagonista di una conferenza stampa show in cui non le manda a dire al difensivismo degli italiani. Capello non fa una piega, sa che i suoi non lo tradiranno; ha naturali dubbi su Savicevic, ma lì è intervenuto ancora Berlusconi: “Sono due anni che ti difendo. Sei un Genio, dimostralo”. Detto, fatto, vinto. Trascinati da Savicevic, arriva la quinta Coppa dei Campioni: e tra i gol più belli di sempre c’è il suo anticipo e quel pallonetto di mancino fatto così, senza pensare, come un colpo di genio appunto. Zubizarreta cade, Cruijff crolla. “Il gol più bello della mia vita? Sicuramente il più, come si dice?, televisivo: è finito nelle cassette e nei dvd, è molto emozionante. Ma di belli, bellissimi ne ho fatti anche con la Stella Rossa”.
In quella notte cambia tutto. Cambiano i pronostici e si modifica per sempre l’importanza di Savicevic in quel Milan. E nella stagione successiva, ancora trascinato da Dejo, il Milan va nuovamente in finale. Sembra scontato, tutto facile. Poi però un infortunio fa crollare tutto: 1-0 per i Lancieri e senza la magia di Dejan c’è un crollo verticale dell’ambiente intero, pure quel Pallone d’Oro ormai assegnato. Capello vince ancora uno scudetto, il quarto in cinque anni. A Savicevic hanno affiancato Baggio e pure il mister sa come farli coesistere.
Poi però don Fabio prende il primo volo per Madrid e i rossoneri cambiano così tanto pelle da diventare irriconoscibili. Tabarez, Sacchi, il Capello bis che va davvero male. Dejan è sempre alle prese con infortuni e la felicità, in un attimo, svanisce. Se ne va in Austria e chiude la sua carriera, a 35 anni, dopo due buone stagioni al Rapid.
Piesse. Sul rapporto con Capello, Savicevic non è mai stato docilissimo: “Una volta il presidente Berlusconi disse allo staff tecnico e a Capello che se un giocatore che aveva sempre giocato bene, non riusciva a esprimersi al meglio al Milan il problema era loro, non del giocatore. In quel periodo era uno dei più grandi allenatori al mondo. Dopo Sacchi tutti pensavano fosse finito un ciclo, invece lui l’ha prolungato e abbiamo vinto Scudetti e Champions. Con lui all’inizio ho avuto dei problemi perché c’erano i tre olandesi che in quel periodo erano i giocatori più forti al mondo e lui non voleva cambiare. Noi altri stranieri, io Boban e Papin eravamo le seconde scelte, Capello ci dava poche occasioni e sinceramente io non ero contento. Dopo un anno e mezzo però cominciai a giocare e penso di aver dimostrato di poter essere un giocatore da Milan”.