Tutto ciò che è stato è anche tutto ciò che ha dato. Daniele De Rossi avrebbe potuto giocare tranquillamente sul suo talento – sarebbe bastato a fare una grande carriera -, poi ci ha messo testa, intelligenza, lavoro, attaccamento.
E allora una bella storia si è trasformata in leggenda. Ma ci è voluto un gran coraggio, per farlo. E la spensieratezza nei momenti giusti, in particolare in quelli più complicati.
Ecco perché quel ragazzino nato a Ostia, da papà calciatore con un passato alla Roma, è diventato enorme. Grande quanto il mondo a Berlino, da giovanissimo. Grande quanto Roma, da uomo.
Ha terminato la sua carriera nel gennaio del 2020, 37 anni ancora da compiere; l’ha iniziata nel 2000. Capirete la portata del viaggio. E se la meta è stata incredibile, tutto il percorso l’ha reso una storia unica nel suo personalissimo genere. Che non finirà. Perché il prossimo capitolo è capire che tipo di allenatore sarà. E cosa riuscirà a portare a casa.
La prima vita in giallorosso
“Ho solo un rimpianto: poter donare alla Roma una sola carriera”. Era un ragazzo e Daniele De Rossi aveva già tracciato la sua rotta privata. Del resto, gli unici chilometri della sua vita, oltre ai viaggi di squadra, erano stati Ostia-Roma e Roma-Ostia.
Ha iniziato a giocare nella parte bagnata della Città. Prima l’hanno schierato attaccante, perché i piedi buoni erano una dote innata; poi Daniele ha aggiunto la corsa e allora l’allenatore l’ha messo terzino con licenza di recuperare e crossare. Alla fine, di nuovo in avanti: quei gol che aveva in dote non ce l’aveva nessuno.
Un rimbalzo costante che però non ha mai contrastato la crescita di De Rossi. A nove anni fa il primo provino per la Roma: è preso, è già un giocatore superiore. Ma per non lasciare il suo Ostiamare, e i suoi compagni, decide di restare ancora lì, che c’è tempo, che avrebbe preferito la vittoria in compagnia che un percorso più complicato in un’età in cui tutto cambia velocemente.
A 16 anni, la maturazione è di fatto completata: si aggrega ai giallorossi e ritrova papà Alberto già allenatore della squadra Primavera. Passa pochissimo: è già l’elemento chiave della squadra. Da attaccante si fa centrocampista centrale: lo decide Mauro Bencivenga, suo ex allenatore.
Era il 2000 e De Rossi aveva già cambiato la formazione giovanile, a inizio 2001 arriva addirittura la prima chiamata nella squadra dei grandi.
L’ha notato Fabio Capello, che lo fa esordire tra i professionisti il 30 ottobre dello stesso anno: ha 18 anni, prende il posto di Tomic e ascolta la musichetta della Champions League da protagonista.
Farà un po’ di Coppa Italia, e solo nel 2003 arriva la prima in Serie A: Como-Roma 2-0. Una batosta. A maggio, facendo un po’ spola tra primavera e prima squadra, De Rossi diventa anche titolare.
Gli anni del grande Daniele
21 anni e il centrocampo della Roma tra le mani: Chivu gli lascia la numero 4, e lui si sente un regista vecchio stampo, bravo a impostare e a ridefinire il concetto di medianaccio. Era un centrocampista moderno, De Rossi, nell’era in cui iniziava ovviamente a sentirne l’esigenza. Arrivato al posto giusto e al momento giusto. In più, con i gol in dote.
E un carattere certamente da smussare, perché come tanti ragazzi era irruento e poco calcolatore, un fascio di talento e nervi. Un anno simbolico, il 2004: l’infortunio causato a Martins (ed espulsione) contro l’Inter, il gol al Real Madrid, il primo in Champions.
Sono anni di una Roma bella, forte, vibrante, che cavalca anche lo scossone capitato alle altre del calcio italiano. De Rossi diventa prestissimo un simbolo in una squadra che cercava di ravvivare l’entusiasmo dello scudetto, di ripetersi quanto prima e di sfruttare subito l’onda.
Nel 2006 indossa la fascia di capitano per la prima volta: è ormai l’erede designato di Totti, nonostante tra i due non ci sia una profondissima differenza d’età. Arriva la scelta del 16 e soprattutto un bel regalo da parte di Marcello Lippi: a Berlino, coi futuri campioni del Mondo, c’è anche lui.
E mentre la Roma cambiava allenatori e stagioni, la Nazionale per Daniele è sempre stata un punto fisso. Dalle giovanili – e il bronzo ad Atene 2004 – fino alla Coppa del Mondo del 2006, da tutta la trafila fino alle delusioni 2008 e 2010, e soprattutto la finale degli Europei del 2012: tutto subito e tutto il resto comunque conquistato lottando, perché De Rossi ha vissuto stagioni di altissimo profilo senza mai far pesare tutto ciò che aveva conquistato in precedenza.
Anche per questo, senza fiatare, ha mal tollerato chi l’ha accusato di restare in orbita proprio perché De Rossi, in virtù del nome e non di quanto prodotto. Dopo Italia-Svezia e il sogno Mondiale spezzato, ha tolto le tende così come le aveva messe: in silenzio.
Monchi, Capitan Futuro e l’amore per il Boca
L’ultimo De Rossi, e in parte anche quello di mezzo, è stato uno dei migliori. Ha avuto tanti infortuni, vero, ma nessuno ha saputo raccontare l’animo romanista come lui. Probabilmente neanche Totti.
La stagione 2011-2012 è forse l’unica di Daniele ancora protetto dall’età e senza un forte peso di responsabilità. Nella stagione successiva, con l’arrivo di Zeman, inizia a incrinarsi qualcosa. Sembrava solo un rapporto giocatore-tecnico, però De Rossi per la prima volta non si è sentito più indispensabile. Gli anni di Garcia avevano aggiustato la percezione, quelli di Di Francesco forse cancellato. Col passare degli anni, però, e con il ritorno di Spalletti, la sensazione di essere un peso – anche per com’è finita con Totti – tornò a bussare prepotentemente.
Quando De Rossi eredita la fascia di capitano c’è Eusebio Di Francesco. E c’è una stagione di livello altissimo, incredibile, a cui fa seguito un tracollo inspiegabile. Lì la Roma si convince di dover fare scelte forti, una volta accertato l’addio di Claudio Ranieri, nel frattempo subentrato a DiFra.
Ecco allora che, il taglio col passato, si concretizza: niente rinnovo per Daniele, fuori per buona parte della stagione causa infortuni. Il 26 maggio del 2019, contro il Parma, a 18 anni esatti dalla vittoria dello scudetto, cede la fascia a Florenzi. Per sempre.
Ma Daniele non ha ancora deciso. Non sapeva se avrebbe continuato, se solo ci fossero stati segnali in tal senso avreebbe subito intrapreso la carriera di tecnico, studiando e aggiornandosi, ma lavorando. Ecco: arriva una chiamata, e una voce amica gli chiede di andare al Boca.
Nicolas Burdisso, che con De Rossi ha giocato anni proprio in giallorosso, gli dà l’occasione che aveva sempre sognato. A 36 anni, un contratto annuale e un gol contro l’Almagro, già al debutto. Dopo pochi mesi, saluta e intraprende un nuovo percorso, al fianco del CT Mancini e della sua Nazionale, l’altro grande amore.
Sappiamo tutti com’è andata a finire, poi, a Wembley.