È sempre stato il suo sogno. E poi è diventata la sua vita. Claudio Marchisio si è detto un ragazzo fortunato e un calciatore privilegiato: semplicemente, sin da quando ha iniziato a dare due calci a un pallone, ha avuto un obiettivo e l’ha perseguito, realizzato, sublimato e quasi sfiorato la vetta della perfezione (prima Berlino, poi Cardiff). La Juventus non era la squadra del cuore, era il suo cuore.
Citazione bonipertiana per unire ulteriormente i simboli e i puntini: nell’ultima grande Juve, Claudio Marchisio è stato l’anello di congiunzione tra ciò che fu e ciò che è stato. Alfa e omega di un progetto poi imploso, ma per lunghi tratti inarrivabile.
Com’è iniziata e com’è finita sono due parti importanti della stessa storia, non fondamentali. Filosoficamente per Marchisio ha contato solo il viaggio, ed è stato lungo, faticoso, emozionante, drammatico, certo e incerto. Ha vestito il bianconero dal 1993 al 2018. Dai 7 ai 32 anni. Ha un bel po’ di tatuaggi, metaforicamente ha aggiunto anche strati di pelle bianconera.
Un bambino a strisce, per le stelle
Per tutta la carriera, Claudio è stato un seguace di Alessandro Del Piero. Ne imitava i gesti, amava i movimenti. Ha varcato i cancelli della scuola calcio bianconera quando Alessandro, poi diventato amico, muoveva i primi passi in prima squadra, scelto da Boniperti in persona mentre il mito di Baggio era al massimo storico.
Anche per questo ha iniziato da attaccante, da numero dieci in grado di servire e offrire. Fino a sedici anni è stato questa roba qui: l’uomo degli ultimi metri, in grado di fare la differenza palla al piede e non ancora un bagaglio di corsa forsennata a supporto dei tecnici. Però ce l’aveva, quel sacrificio. L’ha sempre avuto in dote.
Per questo motivo, il suo primo mister, Maurizio Schincaglia (che ha cresciuto Marchisio per 5 anni, dagli Esordienti alla Beretti), aveva deciso di arretrare la sua posizione di gioco. “Segnava anche tanto, ma si vedeva che non sarebbe diventato un colosso“. Fortuna di Claudio: erano i tempi in cui l’Italia aveva ancora la pretesa di sfornare arieti. Oggi l’avrebbero definito “un attaccante moderno”.
Invece Marchisio è stato moderno, ma più arretrato. Ha corso veloce per tutte le giovanili, vestendo la fascia di capitano in tutte le formazioni in cui ha militato. Quando aveva 19 anni, nel 2005, Capello l’aveva visto e fiutato il talento: lo portò spesso con sé, in quella Juve poi smantellata dai fatti di Calciopoli. Si è allenato con Emerson e ha capito come gestire con calma le tempeste, ha vissuto al fianco di Vieira e ha intuito il guizzo del più forte. Ha potuto lavorare con Del Piero, Trezeguet, Ibrahimovic: movimenti e momenti assorbiti hanno fatto poi scuola.
La grande occasione? Gliel’ha offerta il destino. Quando nel 2006 la Juve è finita in Serie B, tra i giovani in rampa di lancio c’era proprio Claudio, che in quella prima stagione con Deschamps (uno che in quel ruolo aveva discreta voce in capitolo) ha collezionato 25 presenze. Tantissime per un ventenne alla Juventus.
I debutti e la sua prima Juve
La Juve torna subito in Serie A e preferisce Tiago e Almiron a Claudio, che cerca fortuna altrove in prestito – sempre con l’obiettivo di rientrare. Non gli va male, affatto: c’è l’Empoli che deve affrontare la sua prima stagione di Coppa Uefa, in cui Marchisio debutta il 20 settembre contro lo Zurigo. A fine annata ha 26 presenze in A e 2 in Europa, e purtroppo anche una retrocessione sul groppone.
Delusione subito rinfrancata dalla grande occasione che Claudio Ranieri sa concedergli: torna subito alla Juve ed è subito titolare, segnando il primo gol con la Juve in Serie A il 24 gennaio del 2009 alla Fiorentina. Assist – e che assist – di Alessandro Del Piero. L’idolo di una vita, stavolta al suo fianco.
Sono anni, questi, in cui Claudio cresce e capisce la grandezza dell’ambiente in cui ha sguazzato per tutta la vita. A soli 24 anni, l’11 marzo del 2010 indossa la fascia di capitano del club e gliela rende un altro mito come David Trezeguet. Nella stagione successiva è già a quota 100 presenze, e pazienza se la squadra non gira.
Marchisio è sempre presente e gioca da tutte le parti: per Ranieri è un esterno di centrocampo, per Zaccheroni è quasi un trequarti, per Ferrara è un interno ma deve coprire di più. Per Delneri? Ancora un esterno. Finché arriva Antonio Conte e mette tutto a posto. Pure Marchisio: prima centrocampista di rottura al fianco di Andrea Pirlo nel suo 4-2-4. Poi interno d’inserimento nel 3-5-2 che farà le fortune del leccese.
Gol e assist, recupero palla e tifosi impazziti. Ci mette davvero poco, Marchisio, a diventare un idolo del tifo. La sua storia parla praticamente da sola e nel primo scudetto dei nove consecutivi, è forse l’uomo più determinante al pari di Pirlo. Poco dopo, il destino sceglie di rincarare la dose: rottura del ginocchio, prima parte della stagione 2013-2014 praticamente saltata. La Juve si ritrovò il potenziale di Pogba impossibile da non sfruttare, Claudio ci mise davvero tanto a ritrovare con continuità gamba e maglia da titolare.
I sogni sfumati
Vince scudetti su scudetti, senza patire il cambio di allenatore: addirittura Allegri gli dà una nuova collocazione, l’ennesima, provando a giocare con le doti balistiche e allo stesso tempo con la poca autonomia del serbatoio di Marchisio.
Si fa regista di fortuna, e lo fa anche bene, con Pogba al suo fianco e Vidal spesso a dettare la profondità. Claudio porta a casa la migliore stagione della sua carriera, sostituendo Pirlo, agli ultimi sgoccioli di una carriera straordinaria. Il 6 giugno del 2015 gioca la sua prima finale di Champions League e l’emozione è una roba enorme, incalcolabile. Così come la delusione per il risultato finale.
Ecco, quello è uno dei momenti in cui il tempo è sembrato fermarsi. Almeno per il giocatore. Nella stagione successiva riparte ancora da regista, stavolta con Khedira a fare tutto ciò che era solito fare lui pre infortunio.
Non è una grande annata: piovono acciacchi, si sentono mugugni, la Juve ha perso Tevez e l’inizio è disastroso. Alla fine sarà scudetto con rimonta-record, ma per Claudio sarà un’annata da dimenticare. Il motivo? 17 aprile del 2016, sfida interna con il Palermo. Con Vazquez arriva a un contrasto di gioco durissimo: è rottura del legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro. Sarà sei mesi fuori, salterà gli Europei, rivedrà il campo a fine ottobre e ritroverà il gol un anno e mezzo dopo l’ultima volta.
È un infortunio che definisce tanto. Che determina tantissimo. Quella stagione nata sotto una cattiva stella si chiuderà con la finale di Cardiff, dove subentrerà nel finale e vedrà ancora una volta il sogno del bambino spezzarsi. Nell’annata successiva, oltre gli scudetti, farà registrare tanti guai fisici che costringono anche la Juventus a fare scelte diverse.
Dopo 25 anni e senza più un posto in vetrina, è Claudio a chiedere una nuova soluzione per sé e per la sua carriera. Non voleva essere un peso, non lo è stato.
Fino in fondo innamorato, a tal punto da rescindere il contratto il 17 agosto, dopo la preparazione e dopo la certezza: non era nei piani di Allegri.