Chi era Pep prima di diventare Guardiola? E cioè: quale giocatore è stato, di che tipo, e perché tutto quello che ha appreso ai tempi degli scarpini al piede ha inciso così tanto nella rivoluzione calcistica di cui si è fatto portavoce?
Mettiamola così: Pep Guardiola è stato uno dei giocatori che, in campo e fuori, ha preso come una spugna gli insegnamenti di Johan Cruyff e li ha fatti propri. Se non è stato il suo erede in campo – ruoli diversi, talento decisamente differente -, quantomeno ha imparato a prendere quella leggerezza e farla propria guidando le sue squadre. Barcellona su tutte.
E proprio da Barcellona, dalla scuola del Barcellona, inizia la sua storia d’amore con il pallone. Debutto nella stagione 1990-1991, calcisticamente nato proprio nelle strutture e nelle giovanili del club catalano: le ha fatte tutte, le categorie, diventando un perno de La Masia, fino alla categoria C, arrivando dunque alla prima squadra. In pochi, ecco, possono sentire e promuovere i colori e la filosofia del Barça come Pep.
Undici anni nella causa blaugrana, un romanzo d’amore e di formazione con il Barcellona. Con momenti in cui ha inciso, eccome, non solo per la bellezza ma anche nella concretezza della vittoria: 6 campionati spagnoli portati a casa, una Copa del Rey, 4 Supercoppe di Spagna. In Europa, ha vinto una Coppa Uefa e due Supercoppe Europee. Il sogno di alzare la grande coppa, la Champions League, lo realizza contro la Sampdoria: è la prima della storia culé, e Pep è lì ad alzarla dopo il gol decisivo di Koeman.
Da figliol prodigo è partito successivamente per l’Italia, dimostrando anche da noi di essere un giocatore dalla qualità squisita: qualcuno disse che l’aveva fatto per soldi, in realtà andò a guadagnare meno, a prendersi solo difficoltà. Almeno nel primo periodo alla Roma; al Brescia, con Carletto Mazzone, trovò una poesia speciale per il suo calcio.
Lo stile di gioco di Guardiola
Il centrocampo era la sua area di lavoro e lo faceva con un’eleganza tradizionalista, indossando sempre la maglia ben stretta. Aveva classe quando distribuiva la palla, quando la passava, ma soprattutto una visione sontuosa per trovare spazi di cui nessun altro sospettava.
I suoi compagni di squadra avevano un privilegio: ricevere ogni tipo di passaggio, alcuni di questi venivano convertiti in gol. Poi la bravura sui piazzati, anche questa narrata nelle gesta di 11 anni vissuti sulla cresta dell’onda. Ma fare assist, farli quasi cuciti a mano, non era l’unica arma a disposizione di Pep. Sopra ogni altro pezzo di bravura, c’era il tocco. Eccellente. E l’ha sfruttato ampiamente per proporre palloni, per segnare punizioni, per incidere anche senza dover ricorrere alle solite ed estreme corse.
E pensare che inizialmente era visto esclusivamente come un centrocampista di contenimento. Col tempo, Guardiola è diventato un distributore di gioco, l’uomo del filtrante e del filtraggio, passaggi precisi alla ricerca di spazi per andare in rete. E se non riusiva? Aveva pure il lancio lungo nell’arsenale: trovava sempre l’opzione migliore per andare davanti alla porta.
Quella vita dopo il Barcellona
Il Brescia è stata la sua prima e vera avventura al di fuori del Barcellona; arrivò nella stagione 2001-2002. Anche se attualmente non vive un buon momento ed è lontano dalla Serie A, all’epoca il club lombardo era un’ottima piazza, con una squadra di talento, in grado di mettere tutti in difficoltà. Naturalmente, tutto dipendeva dalle gesta e dal talento del dieci: Roberto Baggio come simbolo della rivoluzione di classe.
Pep vi rimase solo per la sua stagione d’esordio e, una volta terminata, partì per un’altra destinazione, sempre in Italia. Fu la Roma ad acquistarlo, in un momento in cui i giallorossi provavano a riprendersi dopo aver vinto uno scudetto incredibile due anni prima: sembrava l’ennesima vetrina per la carriera di Guardiola, dopo Baggio avrebbe avuto quel fuoriclasse di Francesco Totti al suo fianco, proprio nel momento in cui si stava affermando sulla scena mondiale.
Un sogno, quella ricerca di successo. Quanto accadde a Roma è fu decisamente lontano dalle aspettative: Guardiola scese in campo solo in 6 partite, tornando subito a Brescia, nella finestra di mercato invernale. A Roma non ebbe mai il tempo di mostrare il calcio che aveva dipinto al Barcellona.
Dopo il suo periodo in Italia – che non era andato come sperava, non era infatti riuscito a ottenere il successo avuto con il Barcellona -, Guardiola iniziò a scegliere le sue successive squadre in Paesi in cui, per dirla in maniera carina, non si valuta certamente il tipo di progetto o l’ambizione della vittoria. Il Qatar fu il primo campionato con cui Pep decise di cimentarsi, fu infatti uno dei pionieri del calcio (e della decisione di andare a giocare) in Medio Oriente; rimase per due stagioni nel Paese che ha ospitato l’ultima Coppa del Mondo del 2022. Subito dopo, l’approdo in Messico, ma non all’America o al Cruz Azul o ad altre grandi squadre del nostro Paese. Bensì al Dorados, allenato successivamente anche da Maradona.
La retrocessione in Messico
Sinaloa diventa stata la destinazione finale di Pep Guardiola in Messico, ma non arrivò con l’intenzione di mollare il colpo: aveva ancora molto da dare, e voleva darlo alla Liga messicana. Insieme a Sebastián Abreu, “Matute” Morales e ad alcuni giocatori affermati del campionato, il Dorados aveva formato una grande squadra. Anche se vi rimase per poco tempo, fece in tempo a lasciare il segno con i Dorados, pur patendo la retrocessione finale.
Ai Dorados, Pep ha svolto due ruoli: in campo come giocatore, fuori come una sorta di allenatore in seconda. Per la prima volta, lì si è preso il tempo di correggere i movimenti e la tecnica di alcuni dei suoi compagni di squadra, per rendere il loro gioco più efficiente. In Messico nacque la scintilla. Dal Messico, e dal Pep ancora giocatore, abbiamo avuto questo Guardiola.