La regione più a sud dell’Arabia Saudita è storicamente nota come ‘Arabia felix’ per la ricchezza di spezie e incenso che rendevano tanto prospera quella zona del mondo, tanto in età romana quanto in età medievale. Il termine è latino, e non a caso. I romani con Elio Gallo provarono ad assoggettarla, ma senza successo. Al contrario, qualche secolo dopo – dal 632 d.C., anno della morte del profeta Maometto – non lontano da quei lidi doveva partire una rivoluzione religiosa, cultura ed economica destinata ad avere fortuna fino ai giorni nostri. L’Arabia sarà davvero felix, nei secoli a venire, ma per un curioso caso della storia non per coloro che prestarono pensiero e parola a quella locuzione.
Petrolio, l’oro nero
L’Europa infatti sembra rallentare e stancamente cadere in un tempo inversamente proporzionale a quello dell’ascesa araba. I giacimenti di petrolio scoperti per la prima volta nel 1938 hanno donato all’Arabia Saudita un’occasione irripetibile. Ma mai prima del governo di Bin Salman (l’attuale principe ereditario nonché primo ministro) questa ricchezza era stata pensata in termini di espansione mediatica. Fino a pochi anni fa, l’Arabia Saudita stava lì, ricca e prosperosa. Ma quieta. Quasi beata della propria abbondanza. Bin Salman ha invece capito che l’oro nero, per quanto potente, non è una risorsa infinita: altro, molto altro, grazie alla ricchezza derivante dal petrolio, può essere fatto per espandere il nome e lo splendore dell’Arabia felix. Uno di questi è il calcio, strumento di soft-power come non ce ne sono al mondo.
Lo sbarco nel calcio. Come fece la Cina…
Qualcuno ha paragonato il faraonico calciomercato estivo – ancora in divenire naturalmente – delle squadre saudite a quello delle Chinese Super League del 2016, ma tra i due casi esistono differenze sostanziali, che meritano di essere trattate. La più rilevante e immediata sta senz’altro nella modalità: la Cina, pur avendo in mente di ospitare i mondiali di calcio, non ha mai davvero spinto sulle strutture nazionali, sui settori giovanili e l’aspetto commerciale (vendita del prodotto all’estero), nella prima fase di acquisto di alcuni importanti calciatori dall’Europa.
Al contrario il governo saudita vede nel calcio solo la punta di un iceberg dal nome VISION 2030, un progetto ideato nel 2016 con l’obiettivo di arrivare a quella data con un’economia che sia sostenibile al di là delle risorse petrolifere. È bene ricordare che l’Arabia è una nazione giovane: il 60% dei sauditi ha meno di trent’anni e può trainare una rivoluzione. Ecco, la Cina ha speso molto e subito ma senza un criterio. Ad ogni modo poi, non ha mai avuto nel proprio campionato gente del calibro di Cristiano Ronaldo. Già solo su questo punto (più tecnicamente calcistico) la differenza con l’Arabia Saudita emerge nettamente.
Ce ne è un’altra, però, che, se vogliamo è ancora più rilevante e crea un distacco tra l’Arabia Saudita e non solo la Cina ma anche gli Stati Uniti d’America (MLS): la cultura calcistica nazionale. In Cina, dal 2015 al 2017 non è passato giorno senza che i media nazionali fotografassero Xi Jinping con un pallone di calcio tra i piedi. Lui stesso ha affermato di essere un grande appassionato, ex giocatore e di voler trasformare la Nazionale cinese in una delle migliori al mondo. Il calcio, disse, «fortifica sia il corpo che la mente», ma una frase del genere sembra scaturire più dalla propaganda di un dittatore che dalla gioia di un calciofilo. Otto anni dopo, la Cina è infatti rimasta all’ottantesimo posto del ranking FIFA, dietro il Gabon. La causa? Il blocco dell’economia cinese alle follie di calciomercato – che hanno coinvolto anche le proprietà cinesi in Europa, vedi quella nerazzurra – e soprattutto una corruzione che ha divorato dall’interno la federazione nazionale. In tutto ciò la pandemia ha senz’altro giocato un ruolo importante, ma non cruciale.
Il New York Times ha scritto che le cose sono molto cambiate «da quando il successo calcistico della Cina sembrava solo una questione di soldi e determinazione di un paese per cui lo sport più popolare al mondo era diventato un progetto nazionale». Secondo il Wall Street Journal, poi, questo fallimento ha messo in luce «tutti i limiti del controllo con cui Xi Jinping vuole gestire il paese». Detto altrimenti, quella cinese più che una rivoluzione è stata una bolla e gli investimenti fatti dalle squadre della CSL tra il 2016 e il 2017 (400 milioni di €) sono svaniti in un nulla di fatto. Negli ultimi tre anni il valore delle squadre della Chinese Super League si è più che dimezzato, mentre quello delle squadre di MLS, ad esempio, è aumentato del doppio. Come è possibile?
Il modello MLS
Innanzitutto, quella operata dall’MLS non è stata solo una rivoluzione economica, ma culturale. Esattamente come sta avvenendo in Arabia Saudita, i mezzi di espansione della competizione nazionale sono all’avanguardia e coprono la gran parte delle spese interne – sono soldi che non ‘si vedono’ nel calciomercato, ma proprio per questo contano più di quelli. Non dimentichiamoci che la prossima Coppa del Mondo si disputerà proprio in America, tra Stati Uniti, Messico e Canada. E non dimentichiamoci che sarà il primo mondiale a 48 squadre, un evento più unico che raro per l’evento più visto al mondo in assoluto.
Qualcuno ha giudicato ‘pericoloso’ l’acquisto di Lionel Messi da parte dell’Inter Miami di Beckham, perché il fenomeno argentino è ormai a fine carriera e potrebbe non arrivare a disputare il mondiale del 2026 – o almeno, non in condizioni da GOAT. Eppure il gol dell’1-0 di Messi contro l’Atlanta dello scorso 26 luglio è stato il momento sportivo più seguito della storia negli Stati Uniti d’America in televisione. Anche qui, Messi non rappresenta che l’apice di un progetto più ampio, proprio come Ronaldo in Arabia Saudita. A livello di brand value, secondo Forbes, negli ultimi cinque anni il dato è salito del 161% per l’MLS. La competizione poi, considerando Facebook, Twitter e Instagram vanta una fanbase di 10.8 mln di utenti, mentre quella della Saudi Pro League si ferma a 2.5 mln. Per parafrasare al contrario Cristiano Ronaldo, almeno al momento «la Saudi Pro League [non] è superiore alla MLS», né lo diventerà nel breve periodo. Eppur qualcosa si muove. A dire il vero, molto più di qualcosa.
Investimenti mostruosi: sarà vera gloria?
Partiamo da un dato. Avevamo detto che la Cina dal 2016 al 2017 aveva speso 400 milioni sul mercato. L’Arabia Saudita, per capirci, ne ha già spesi quasi 600. E non stiamo contando l’offerta monstre che l’Al-Hilal ha recapitato al PSG per Kylian Mbappe: 300 milioni + 700 al fenomeno francese per un solo anno di contratto. Una cifra onestamente raccapricciante, che raggiunge il miliardo e fa rabbrividire chiunque, rendendo anche ridicolo un confronto con altre leghe, del passato (CSL) o del presente (MLS).
Ciò che fa paura comunque non è solo la quantità di denaro che l’Arabia Saudita sta investendo sul calcio europeo, ma la radice di questo denaro. Infatti le squadre che hanno speso di più nella Saudi Pro League sono tutte sotto un medesimo fondo, il PIF – che sta per Public Investment Fund, fondo pubblico di investimento dello Stato saudita. Detto altrimenti: gli acquisti che stiamo vedendo in questa sessione di mercato non vengono da ‘privati’ ma da uno Stato sovrano. Lo stesso che, detto per inciso, possiede anche il Newcastle – quest’anno in Champions League – e Sheffield United ed è al momento il terzo fondo più ricco dell’Arabia Saudita con 600 miliardi di dollari (circa 550 miliardi di euro).
Capite bene allora che quando si parla di ‘milioni’ le cifre per il fondo PIF sono tutte da relativizzare. Il club che ha speso di più finora è l’Al-Hilal (133,60 mln), poi l’Al-Nassr (128) e l’Ittihad (78). Tra i nomi più in vista il già citato Cristiano Ronaldo, Sergej Milinkovic-Savic, Ruben Neves, Benzema, Kanté, Mendy, Koulibaly, Henderson, Alex Telles, Jota, Brozovic. Parliamo di giocatori ancora forti, non tutti magari nel pieno della propria carriera ma molti di essi con ampi margini di miglioramento e ambizione. Qui però arriviamo anche ad un’altra differenza col mondo americano e soprattutto cinese. Il campionato arabo è più vicino, geograficamente, dei due sopracitati. Inoltre per molti di questi l’Arabia Saudita è la culla della propria religione (l’Islam).
Non sarà solo calcio..
Ad inizio articolo avevamo parlato degli investimenti scriteriati della Cina nel calcio. Ecco, la situazione in Arabia Saudita è diversa e per molti sconosciuta. La verità è che il governo saudita aveva già iniziato a stanziare fondi importanti per le strutture e la crescita del calcio giovanile (prodotto interno), e la vittoria contro l’Argentina al girone degli ultimi mondiali è solo l’antipasto di quello che vedremo da qui a sette anni (data cruciale: 2030, anno nel quale l’Arabia Saudita spera tra l’altro di ospitare i mondiali). C’è dell’altro. Il calcio in Arabia Saudita ha sempre goduto di grande popolarità (differentemente da Cina e soprattutto USA), sin dalla fine degli anni Novanta quando alcune squadre del campionato saudita – più per divertimento che per progettazione – acquistarono giocatori forti a fine carriera come Bebeto, Denilson, Stoichkov (che andò proprio all’al-Nassr), Donadoni. Più recentemente anche Giovinco aveva giocato in Arabia, e così Talisca, tra i più noti nel calcio europeo.
Ma oltre al calcio, i sauditi negli ultimi anni hanno investito molto anche in altri settori come l’intrattenimento, la Formula 1, il golf e il wrestling, la pallamano, il rally, l’industria dei videogiochi. Il Paese è ovviamente ancora lontano dal rappresentare un modello, ed è sotto l’occhio di Amnesty per le violazioni dei diritti umani, ma ogni rivoluzione ha i suoi tempi. E il calcio, in questo, può annullare le distanze e scrivere nuovi orizzonti. Ronaldo lo ha annunciato: sta al campo dimostrarlo.