Ora: immaginate la faccia di Carletto Mazzone quando, in pochi minuti, si concretizza praticamente un sogno. Dall’altra parte del telefono, forse il giocatore italiano più forte di sempre; lui, che a Brescia aveva la missione salvezza, pronto ad aggiungerlo a una rosa giovane, sfacciata, comunque da irrobustire.
Ora: immaginate il suo sorriso, e il sudore che scorre un po’ per l’emozione e un po’ per quella corsa a perdifiato che fa per raggiungere la macchina.
È il primo gesto, quasi istintivo, che svolge il tecnico. Corre verso gli uffici di Corioni, presidente delle Rondinelle, e non fa neanche mezzo giro di parole: “Perché non portiamo Baggio a Brescia?”.
Il presidente parla di “cacio sugli spaghetti”, questioni di sponsor che diventano musica dolcissima per le orecchie dell’allenatore.
Scriverà poi Mazzone nel suo libro: “Mi raccontò ‘Dribblo il mio preparatore e davanti ho il deserto’. Questa è la storia dell’emarginazione di Roberto Baggio… Dicevano che era rotto… Un paio di allenatori importanti gli avevano fatto terra bruciata. Cattiverie”.
Lo ricostruì Sor Carletto. Con orgoglio.
Il rifugio di Roberto Baggio
E allora si ritrovarono così, quasi per caso, il tecnico più anziano del campionato (e oltre mille panchine sul groppone) e Roberto, il Divin Codino, il talento più lucente di quella Serie A ancora fucina incredibile di fuoriclasse.
Pilastri di un Brescia che aveva appena compiuto il suo diciottesimo anno di Serie A, che non era mai stato più di tre anni consecutivamente nella massima serie, che non aveva mai raggiunto l’Europa in 90 anni di storia. È chiara, insomma, la bellezza di tutto ciò?
Stagione 2000-01, nelle intenzioni di Corioni c’era la solida possibilità di andare avanti in un modo diverso dal vivacchiare. E la prima casella da spuntare sull’ordine della stagione era chiaramente l’impostazione di una rosa che potesse avere più caratteristiche possibili.
Così, dall’esperienza di Bisoli e Petruzzi, dai giovani Bonera e Diana, dai gemelli Filippini e Tatanka Hubner, Baggio diventava la luce in grado di illuminare il cammino impervio verso la salvezza. Che poi si fece salvezza tranquilla. Che quindi divenne Intertoto.
Furono quattro anni di altissimi e qualche basso, comunque di calcio vero. Giocato bene. Con voglia e ambizione.
A gennaio 2001, sarebbe tornato al Brescia anche Andrea Pirlo, trequartista atipico che però all’Inter aveva semplicemente sofferto il passaggio.
L’intuizione di Mazzone, che lo spostò nel ruolo di vertice basso a centrocampo, fu figlia anche di un’incompatibilità con Roby: davanti gestiva Baggio, tutto e tutti.
Ma che dolcezza in quel destro di Pirlo, bravo a pescare tutti e soprattutto il Codino. Che in Lombardia, non lontano dal suo Veneto, aveva trovato un piccolo paradiso.
La fuga perfetta, perché in grado di tranquillizzarlo ma allo stesso tempo di dargli un palcoscenico importante. Il desiderio era quelli di dimostrare ancora a tutti la sua meravigliosa qualità.
La famosa clausola
E fu un richiamo per tanti giocatori, specialmente se d’una certa caratura umana e mentale.
Esempio massimo fu Pep Guardiola: “Perché il Brescia? Volevo giocare con Baggio“, le sue parole in sede di presentazione.
A trent’anni, con la fresca rottura del rapporto con il Barcellona, Corioni gli esaudisce un desiderio strappando la promessa di cambiare il centrocampo delle Rondinelle. Pep non sarà però protagonista di quella famosa quinta giornata, simbolo di quanto cuore avesse il Brescia: lì, la foto copertina fu tutta del Sior Carletto.
In casa, il gran derby tra Rondinelle e Atalanta: dopo il vantaggio di Baggio, ecco Sala, Doni e Comandini a ribaltare la sfida. Dovrà pensarci ancora Roby a togliere le castagne dal fuoco: prima al 75′, quindi il sigillo del pari all’ultimo istante disponibile.
Celebre la corsa di Mazzone sotto la curva nerazzurra – che lo insultò per tutti i novanta minuti -, celebre il tentativo di parte della panchina di trattenerlo, di chiedergli ragione. E pazienza. Ma era incontenibile, Carletto. Che oggi appare solo un meme, che in quel momento fu maschera di rabbia.
Del resto, in quella tripletta di Baggio c’era anche la sua rivincita, anni di duro lavoro e poche occasioni tra i grandi. Trasformato in personaggio quasi senza volerlo, Mazzone non l’avrebbe confessato neanche a denti stretti ma in lui continuava a vivere un inspiegabile complesso. Tra le grandi del nord, non c’era mai stata la volontà di offrirgli un’occasione.
I motivi possono essere svariati, qualcuno facilmente intuibile. Ma in termini di empatia con il gruppo, Mazzone non era mai stato secondo a nessuno.
Baggio, quando si legò al Brescia, lo fece soltanto previo patto strutturato con la società: tutto sarebbe dipeso dal contratto del tecnico.
Una clausola speciale che l’avrebbe legato più a Mazzone che al Brescia, una via di fuga che gli avrebbe evitato penali se il clima tra Corioni e il romano fosse divenuto troppo burrascoso e meritevole di un addio.
Un unicum nella storia del calcio italiano.
Un gruppo unito anche nella tragedia
Ma quello era un gruppo davvero bello. Solido. Pieno d’amicizie e di storie. La più tremenda, il tragico addio di Vittorio Mero, scomparso in una gelida sera d’inverno lombardo. Non una come tante. Non più.
Non da quando un assurdo incidente si era portato via il 28enne, che lasciava a Brescia una moglie e un figlio appena nato. E un gruppo che non sapeva spiegarsi il motivo di tutto ciò.
Il destino volle che, in quel momento, il Brescia fosse in campo. Per una gara di Coppa Italia, la squadra di Mazzone era al Tardini: partita secca contro il Parma. Faceva freddo, parecchio freddo, troppo freddo: mentre tutto si sviluppava come nei più classici pre, la notizia dell’incidente di Vittorio squarciava in due il cielo e nell’aria si sentiva solo il dolore di tutti.
Poche parole arrivate per prima ai giornalisti giunti da Brescia. Pian piano, la voce fa il giro della tribuna, arriva ai calciatori. Che s’abbracciano, piangono: Baggio scuote il capo, si toglie i guanti e li getta a terra, scomparendo negli spogliatoi. Il dispiacere è immenso, unisce tutti.
Una delegazione del gruppo va sotto la curva a riferirlo agli ultras. Dagli spalti si alza il coro: “Mero, Mero”. Mero non c’è più ma non è mai stato così presente.
La sua maglia a centrocampo, l’applauso di tutti e le lacrime non solo di chi lo conosceva: anche quest’unità è stato il Brescia di Mazzone e di Baggio. Una coppia in grado di far sognare la provincia d’Italia.