È il 1966 e ci troviamo a Birmingham. Per la precisione, è il Villa Park lo Stadio che ospita l’incontro mondiale tra Brasile e Portogallo, una sorta di derby (a sfondo coloniale).
Il Brasile è alla ricerca del terzo successo mondiale di fila, ma il calcio, in quattro anni, è mutato molto rapidamente. Più rapidamente delle intuizioni di Carlos Alberto Torres, indomito difensore verdeoro e leggenda della nazionale, che afferma: «Non è nella natura di noi brasiliani metterla sul piano fisico. Contro il Portogallo ci guardavamo l’un l’altro, come spaesati. Non era solo una questione di velocità, ma di tenuta fisica».
Il Portogallo elimina il Brasile in una delle competizioni mondiali più apparecchiate della storia, che vedrà infine la Regina d’Inghilterra sorridere insieme a Bobby Moore e compagni, per il primo e unico successo in Coppa del Mondo degli inventori del football.
Un vecchio adagio recita che sì, gli inglesi il calcio l’hanno inventato, ma è il Brasile la nazione che sa interpretarlo nella maniera più spettacolare ed efficace di tutti. Così, Torres e compagni, dopo quell’eliminazione, si rimboccano le maniche in vista di un mondiale ad alta quota, quello appunto di Messico 1970.
Verso il mondiale messicano
Nel frattempo, però, un altro problema incombe sulla nazionale verdeoro. È la scelta dell’allenatore. Dopo un valzer di nomi, dimissioni ed esoneri, la guida della nazionale viene affidata a João Saldanha. La sua esperienza come allenatore è ridotta. Saldanha è prima di tutto un ottimo giornalista. I successi nel girone di qualificazione, tuttavia, attirano la simpatia del popolo. Risolta la prima incombenza si prosegue e tutto sembra filare liscio, almeno fino al nuovo grattacapo, la questione del rapporto con Pelé: a detta di Saldanha, O Rey ha problemi di vista che dovrebbero fermarlo dal giocare il mondiale.
Nonostante i buoni risultati ottenuti con la propria nazionale, dunque, Saldanha viene esonerato il 17 marzo del 1970, a pochi mesi dal mondiale, proprio da quel João Havelange, presidente della Federcalcio brasiliana che lo aveva fortemente voluto nel 1968.
Come accade in questi casi, con poco tempo per stravolgere la tattica e molto per affidare ai soli giocatori il compito di vincere la competizione, la squadra viene affidata a Màrio Zagallo, vincitore della Coppa del Mondo col Brasile nelle edizioni del 1958 e del 1962.
Il folle piano tattico dei cinque «numeri 10»
Il quale, pur presentandosi in punta di piedi, effettua un autentico miracolo sportivo: far giocare, e dunque coesistere, tutti e cinque i numeri “10” della Seleçao: Pelé, che la veste nel Santos, Gerson, che la porta per il San Paolo, Rivelino, fantasista e numero 10 per il Corinthians, Tostão che fa le fortune del Cruzeiro e Jairzinho, che gioca sempre con la 10 ma nel Botafogo.
E pensare che oggi, di numeri 10, se ne fatica a trovarne cinque in giro per il mondo. Il Brasile li aveva tutti in campo. La spregiudicatezza di un’idea simile non è però una semplice follia.
Zagallo capisce di avere un attacco esageratamente forte, e decide così di ragionare come ragionerebbe Kasparov dinnanzi al proprio avversario: d’anticipo. Zagallo, detto altrimenti, mette in azione un principio teoretico che richiede coraggio e un pizzico d’incoscienza: la miglior difesa è l’attacco.
La formazione iniziale è un 4-3-3, ma la freddezza dei numeri non riuscirà mai a raccontare la poesia di una squadra irripetibile, in cui i ruoli venivano quasi da sé a seconda del momento della partita.
Ad esempio il capitano, Carlos Alberto Torres, fa sì il terzino destro, ma partecipa alle azioni offensive come fosse un’ala, difendendo attaccando in avanti. Félix tra i pali, dunque. Difesa a quattro con il citato Torres ed Everaldo sugli esterni, Piazza e Brito centrali. Centrocampo con Clodoaldo, Gérson e Rivelino. In attacco, Jairzinho, Pelé, Tostão. Per Pelé, già vincitore di due mondiali, è l’ultima coppa del mondo.
È subito Pelè contro Banks
Alle urne, il Brasile pesca la Romania, la Cecoslovacchia e soprattutto l’Inghilterra campione in carica. Non è un girone facile, ma neanche impossibile. C’è grande curiosità di vedere i cinque dieci tutti insieme in campo. I restanti sei sapranno bilanciare i giochi di prestigio e le licenze poetiche del reparto offensivo? È la domanda sbagliata, però, perché quelli «dietro» partecipano al gioco offensivo come fossero anche loro altrettanti “dieci”.
Contro la Cecoslovacchia, il 3 giugno del 1970, inizia ufficialmente il Mondiale del Brasile in Messico. Zagallo aveva preparato i suoi ad un’altitudine quasi identica a quella messicana. E la scelta, con una qualità così elevata in mezzo al campo, si dimostra efficace.
Dopo essere andato in svantaggio, il Brasile prende pieno possesso del campo e delle operazioni, vincendo con un sonoro 4-1 contro la malcapitata Cecoslovacchia. Il divario poteva essere più ampio, ma grazie al portiere ceco Ivo Viktor i gol, al termine dell’incontro, sono “solo” 4. Le reti sono di Rivelino su calcio piazzato, Pelé su gran palla di Gerson: infine, lo show di Jairzinho che prima scherza con Viktor, saltandolo con un cucchiaio e depositando in rete il facile gol del 3-1, poi saltando tre giocatori con una facilità imbarazzante e angolando col destro un tiro imparabile, che bacia il palo e dice al mondo che il Brasile è la squadra più forte del pianeta.
Prima di poterlo affermare con certezza, tuttavia, c’è il test più probante del girone da dover superare.
È l’Inghilterra di Gordon Banks, Bobby Moore, Bobby Charlton, Alan Ball, Geoff Hurst, sapientemente allenata da Alf Ramsey. L’Inghilterra ha una condizione fisica ottimale, che mette in difficoltà il Brasile per tutta la durata dell’incontro. È la partita della celeberrima parata di Gordon Banks su Pelé, forse la più bella – se non la più difficile – della storia del calcio.
Il punteggio pare stregato, ma il Brasile dietro non soffre mai e al 57’, finalmente, trova la rete del vantaggio con una splendida azione corale impostata da Tostão, proseguita da Pelé e conclusa dal solito Jairzinho. Il punteggio rimarrà invariato. È una grande vittoria, che certifica la forza dei verdeoro.
L’ultima partita contro la Romania è quella della quiete prima della tempesta, cioè la fase eliminatoria del torneo. Il punteggio finale è di 3-2 con le reti di Pelé (due volte a segno) e ancora Jairzinho, ben imbeccato proprio da Pelé in occasione del 2-0 (che arriva dopo appena 20’). La Romania di Dobrin e di un certo Mircea Lucescu, ancora sconosciuto, riesce però almeno a salvare la faccia. Due gol, sul 2-0 e sul 3-1, raccontano un punteggio finale che non rispecchia affatto i valori in campo.
Le battaglie con Perù e Uruguay
Teofilo Cubillas, Hector Chumpitaz e Hugo Sotil. Eccole le tre stelle del Perù, la temibile avversaria del Brasile ai quarti. I sudamericani in maglia biancorossa sono poi allenati da un’autentica leggenda della nazionale verdeoro come Didi, bi-campione del mondo e considerato uno dei migliori tecnici brasiliani. E su questo ci sarebbe da raccontare davvero una storia a parte, per via di tutte le polemiche che precedono l’incontro dei quarti di Mexico 70.
Comunque prima Rivelino e poi Tostão, sembrano mettere a tacere i rumori della vigilia portando un determinato Brasile sul 2-0 come accaduto contro la Romania. Ma il Perù non è la Romania, e al 28’ Gallardo accorcia le distanze, comunque ristabilite da Tostão a inizio ripresa. Quest’ultimo è come il giocatore chiave dell’attacco brasiliano. L’uomo che riesce a legare splendidamente Pelé e Jairzinho, svariando orizzontalmente sulla trequarti senza dare punti di riferimento agli avversari, ma dandone – eccome – ai propri compagni di squadra. Nel finale, al 70’, Cubillas riapre la partita, ma Jairzinho la richiuderà poco dopo. Punteggio finale 4-2.
In semifinale, i demoni si fanno presenti ed inquietanti, posando come ombre sulla verdeoro del Brasile. Sulla maglietta verdeoro, s’intende. Perché l’avversario è l’Uruguay, che vent’anni prima, con una vittoria per 2-1 in finale al Maracanà, aveva costretto il Brasile a ripensare l’iconica maglia bianca per spezzare una maledizione durata l’arco di una partita.
Ora, a vent’anni di distanza da quell’evento nefasto conosciuto da tutti come Maracanazo, i padri brasiliani posano sulle spalle dell’undici verdeoro come un macigno invisibile ma sensibile. Che infatti indirizza la partita anche nel punteggio. È infatti la nazionale uruguaiana a passare in vantaggio con la rete di Luis Cubilla al 19’. I giocatori del Brasile sembrano rivivere l’incubo. Serve una giocata che spezzi la sapienza tattica dell’Uruguay, tutta garra e ripartenza.
L’allenatore della Celeste, Juan Hohberg, sa che la fonte principale del gioco brasiliano è Gerson, e una marcatura a uomo su di lui gli impedisce di muoversi e inventare come vorrebbe. Così, è Clodoaldo ad inventarsi il gol del pareggio con una staffilata potente e precisa sul secondo palo, dopo esser sopraggiunto in area dalla propria metà campo, inarrestabile. A fine primo tempo, Zagallo motiva i suoi, puntando sull’orgoglio del popolo brasiliano. Nella ripresa, arriveranno le reti del 2-1, ad opera del solito Jairzinho, e di Rivelino, su assist di Pelé, a pochi secondi dal termine.
Nel mezzo, l’incredibile dribbling senza tocco di Pelé, che con un movimento di anca manda fuori causa il portiere, per poi calciare di un soffio a lato col destro, per quello che rimane ancora oggi il più incredibile e meraviglioso non-gol della storia. 3-1 e Brasile in finale. Ora che anche la maledizione dell’Uruguay è stata scacciata, niente può fermare i verdeoro.
L’apoteosi contro l’Italia
Nemmeno gli Azzurri. Che arrivano stanchi all’appuntamento dopo l’incredibile partita del Secolo contro la Germania, un 4-3 senza tempo, ma non per l’undici azzurro che si presenta alla finalissima col Brasile sulle ginocchia.
In porta per l’Italia c’è Albertosi. Difesa a quattro composta da Cera, Rosato, Burgnich e Facchetti, il capitano che due anni prima aveva condotto la nazionale al titolo europeo. I due centrali di centrocampo sono De Sisti e Mario Bertini, interditori e perfetti allo stile di gioco azzurro, catenaccio e ripartenza. Sandro Mazzola e Angelo Domenghini giocano alle spalle della coppia d’attacco Riva–Boninsegna.
Questa Italia, detto altrimenti, è uno splendido mix tra stelle dell’Inter ed eroi del Cagliari, campione d’Italia. Il Brasile passa in vantaggio dopo pochi minuti con un poderoso stacco di testa di Pelé, ma un leziosismo di troppo di Clodoaldo consegna agli Azzurri l’occasione di pareggiare. Boniba non se la lascia scappare, ed è 1-1.
Nella ripresa, prima Gerson e poi Pelé sfruttano a meraviglia la mancanza di energie dell’Italia, stremata da un’edizione mondiale comunque memorabile. Il Brasile vince con merito e stile.
Una squadra eterna, meravigliosa, con ben cinque “dieci” in campo. Un unicum nella storia. A testimoniarlo è un altro dato: il Brasile, dopo quel Mondiale, dovrà aspettare altri 24 anni prima di rivincere il massimo titolo calcistico. Proprio contro l’Italia. Ma questa è un’altra storia.