Un musicista immortale, un protagonista assoluto del ventesimo secolo, un’icona di libertà: tutto questo è stato Robert Nesta Marley (e già dal nome completo un po’ di calcio c’è…), al secolo Bob Marley.
Giamaicano classe 1945, con i suoi successi (in particolare “Redemption Song”, “No woman no cry”, “Stand up”) ha lanciato continui messaggi d’amore e di pace, intrecciando inevitabilmente la politica con i suoi testi dedicati alla lotta dell’oppressione politica e razziale.
Ciò che molti non sanno (o che considerano un aspetto secondario) del leggendario cantante reggae, è l’amore folle per il calcio che Bob coltivava fin da bambino.
Robert Marley, nato col pallone
La primissima infanzia di Robert Marley assomiglia a quella di tantissimi bambini dei paesi poveri post Seconda Guerra Mondiale: si gioca con quel che si può, l’avere un pallone per giocare per strada è già un lusso notevole. Robert ha tale fortuna: nel contesto di un’infanzia difficilissima, senza padre e in una città (Kingston) malfamata e violentissima, può fin da piccolo distrarsi prendendo a calci un pallone.
Pallone che non lo abbandonerà mai anche a successo musicale raggiunto: non è un caso che uno dei primi investimenti, con il denaro racimolato dalla vendita dei primi dischi, Robert l’abbia dedicato alla costruzione di un vero e proprio campo da gioco presso la propria residenza: presso Hope Road 56 , a Kingston, sono divenuti celebri i match disputati tra Marley, i suoi familiari e i suoi amici, giocati praticamente ogni giorno.
L’evoluzione calcistica di Marley, in un certo senso, progrediva di pari passo con quella musicale: del resto, tra gli amici che frequentavano quotidianamente il campo di Hope Road vi era Allan Cole, forse il più grande attaccante della storia della Nazionale Giamaicana di calcio, che sin dal primo momento affiancava Bob in partite e allenamenti sempre più duri e completi.
La seconda vita (pallonara) a Londra
Kingston, l’abbiamo detto, non restava un posto tranquillo: nel 1976 Bob, la moglie Rita e i figli furono vittime di un attentato armato nella loro casa (generato dall’instabilità politica che Marley creava con la sua musica). Fortunatamente, se la cavarono tutti quanti, con l’unico risultato di generare il trasferimento di tutta la famiglia a Londra.
Il caso volle che Bob Marley, assieme ai componenti del proprio gruppo (i Wailers) trovasse casa presso il 32 di Oakley Road, una strada del quartiere Chelsea, a poche decine di metri da Battersea Park, il loro stadio dell’epoca.
Questa casualità portò Bob a creare, coadiuvato dall’amico Cole, una vera e propria società di calcio: l’House of Dread Football Club. La rosa, oltre che da Marley e da Cole, era composta da tutti i componenti dei Wailers e dai singoli membri dell’equipe che li seguiva (come il cuoco o il tecnico delle luci).
All’inizio la House of Dread giocava partite di carattere amatoriale nei vari campetti di calcio presenti all’interno dei numerosi quartieri della “city” londinese.
Dalla fine del 1977, contestualmente al successo planetario di Bob Marley e dei suoi Wailers nel settore musicale, le possibilità di organizzare partite si moltiplicarono. L’episodio più singolare avvenne all’inizio dell’estate del 1980, quando il team dei giamaicani affrontò per la prima volta alcuni giocatori di una squadra professionista: i francesi dell’FC Nantes.
L’incontro, giocato 5 contro 5, terminò 4 a 3 per i transalpini; molti furono i commenti positivi sulla figura di Bob Marley come calciatore. Su tutti quello del grande Henri Michel, all’epoca centrocampista: “Marley non è niente male, davvero. E poi mette sempre la gamba, pure se stavamo giocando in allegria”.
Bob Marley, artista anche col pallone
In effetti, lo stesso Bob Marley in una intervista rilasciata in precedenza aveva dichiarato: “Qualora non avessi fatto il cantante, con ogni probabilità sarei stato un rivoluzionario o un calciatore. Il calcio vuol dire libertà, creatività, dare libero sfogo alla propria ispirazione”.
Del resto, quando Bob giocava, non aveva un ruolo preciso: come nella musica, risultava del tutto fuori dagli schemi, giocava con la mente libera giusto per il gusto di giocare a pallone e condividere momenti felici con i propri amici.
Il re del reggae si spense l’11 maggio del 1981, e risulta emblematico l’insieme di oggetti che decise di portare con sé nel suo ultimo viaggio: una chitarra, una piantina di marijuana, una bibbia ed un pallone. Le quattro cose che hanno caratterizzato maggiormente l’esistenza di un gigante dello scorso secolo.