Questa è una storia da “c’era una volta”. C’era una volta il calcio, c’era una volta la spontaneità, c’era una volta la provincia italiana che pullulava di storie incredibili e in senso stretto: erano veramente complicate da realizzare e concepire. In questo racconto di quasi cinquant’anni c’è un ragazzino il cui nome torna e si ripete, si ripete e torna. Fa parte di quelle leggende popolari – in questo caso c’è però un frammento di Domenica Sportiva a testimoniare – di cui il nostro Paese si nutre, dalla quale non si può non ricavare una nostalgia istantanea.
E allora, eccoci al 12 gennaio del 1975. Si gioca Ascoli contro Bologna: è la prima stagione dei bianconeri in Serie A, la città è ovviamente e perennemente in fermento, come il presidentissimo Costantino Rozzi e tutto il talento di un allenatore alle prime armi come Carletto Mazzone.
Domenico Citeroni è un ragazzino nato a Montreal: il papà lavorava da mercenario per gli americani e stava di guardia ai missili al Polo Nord. Poi ha lavorato nelle miniere in Alaska, quindi in Canada. Lì nacque Domenico, comunque italianissimo e precisamente di Ascoli. Quando la famiglia fece ritorno, era quasi passata l’età delle figurine. Ma vederle settimana dopo settimana al De Duca, era semplicemente una tentazione troppo forte.
Da raccattapalle
Capitava, allora, che senza avere i soldi per la partita, Domenico si recasse ugualmente allo stadio: c’era l’usanza di premiare i primi dodici a presentarsi, per loro l’onere di essere raccattapalle. Ecco, Citeroni era alle 10, quattro ore in piedi prima di fare il suo ingresso allo stadio, cinque prima del calcio d’inizio. E li vide tutti, in quella stagione. Ed ebbe paura solo di uno: Dino Zoff.
Altra usanza di Domenico era quella di partecipare attivamente alla partita, nelle modalità in cui chiaramente poteva. Cioè: allontanare la palla se il risultato era favorevole, accelerare le operazioni di ripartenza se l’Ascoli ne aveva strettamente bisogno. “Avevo 16 anni. Che personalità, Dino Zoff. I palloni che uscivano glieli ributtavo dentro con dei calcioni alti e storti, così lui doveva rincorrerli e si perdeva tempo. Un pari con la Juve era oro. Ma, a un certo punto, mi guardò negli occhi e con la sua flemma mi disse: “Benedetto figliolo, il pallone devi darmelo in mano…“. Quello sguardo e quella calma mi gelarono. Tutti i palloni successivi glieli appoggiai sui guanti. E non era facile impressionarmi…”, il suo racconto.
Non andò meglio con il portiere del Vicenza, Sulfaro, che si ritrovò a rincorrerlo per tutto lo stadio dopo un paio di sbeffeggiamenti di troppo. Comunque, quel gennaio del ’75, Domenico era lì. L’Ascoli ultimo in classifica a sette punti, il Bologna a quota dodici. I felsinei vanno subito in vantaggio con Ladini, Zandoli pareggia per l’Ascoli. Arriva il momento di Beppe Savoldi, uno che in carriera ha segnato 168 reti in 405 partite.
L’episodio con Savoldi
Prima il gol del sorpasso, poi quello della sicurezza. Savoldi entra definitivamente in partita e non vuole uscirne se non con una tripletta fondamentale ai fini della classifica marcatori. Al 90′, Bulgarelli lo lancia e lo stop è perfetto: è da solo davanti a Masoni, che batte con un tiro preciso, finito sotto lo stomaco dell’estremo difensore. La palla s’invola verso la porta e supera la riga bianca: è nell’angolo, è il 4-1, è il tris targato Savoldi. Poi? Domenico si avvicina al palo e con un calcio d’istinto la ributta in campo. Castoldi, il difensore, lo guarda e non realizza: calcia il pallone fuori, pure lui totalmente d’istinto. In tutto questo, l’arbitro Barbaresco crede che il pallone abbia colpito il palo. Incredibilmente, concede il calcio d’angolo.
“Finisce la partita. Vedo agitazione sulle panchine e me la squaglio. Filo dritto a casa. Non dico niente a nessuno. Mi metto a letto senza neppure aspettare la “Domenica sportiva”. Non ne parlo con gli amici, ma due giorni dopo trovo i giornalisti all’uscita della scuola, Istituto professionale Inapli. Ok, signori, sono io… “, il racconto di Domenico. Che fu subito invitato a La Domenica Sportiva: avevano organizzato una ‘carrambata’ con Beppe Savoldi. Per fortuna, l’aveva presa bene. Sebbene a fine anno si concretizzò la beffa finale: senza quel gol, il totale rimase di 17. Come Pulici e Rivera, solo che il centravanti del Torino aveva giocato una gara in meno e allora il trofeo fu tutto suo.
Da lì in poi, il ragazzo divenne una sorta di mito. Chinaglia lo chiamò negli spogliatoi e gli fece capire di non sbagliare, gli arbitri lo tenevano d’occhio e chiedevano di tenerlo lontano dalle porte. Una volta, fu addirittura cacciato dal campo: aveva esagerato con le perdite di tempo (che gli chiedeva mister Mazzone in persona, ai tempi giovanissimo tecnico ascolano). Il carattere della provincia e un racconto che continuerà ad essere tramandato. Per sempre. E per fortuna.