Aggrapparsi. E tenersi forte, mentre le partite scorrono e i risultati si susseguono, lasciandoti quasi senza la forza di rispondere, di colpire, di tornare padroni del proprio destino. Eccola, l’immagine di quella Fiorentina: in preda a una bufera, con i nuvoloni sulla testa e un destino già segnato. Aspettava il tuono definitivo, preludio di tempesta. Non aveva fatto tutti i conti con il suo carattere. Con il temperamento del suo allenatore.
Stagione 1999-2000, è una vita fa se consideriamo chi c’era in campo e la parabola di Fiorentina e Arsenal. La prima, certamente tra le squadre italiane più temibili, dunque tra le prime forze di tutt’Europa; la seconda, grande tradizione e giovani terribili, in attesa di completare il suo processo di maturazione che culminerà nell’annata degli invincibili. In una Champions League dai ritmi già profondamente alti, l’obiettivo non dichiarato di entrambe era avere licenza di sognare. Gli inglesi erano la fantasia di Overmars e Bergkamp, i viola la potenza di Batistuta e la qualità di Chiesa.
Un passo indietro
C’era un tempo in cui tenersi saldi tra campionati e Coppa sembrava più complicato di una Fatica di Ercole. La Fiorentina, già ai nastri di partenza di quella stagione, aveva pertanto occupato tutti i pensieri con la musica della grande Europa: in campionato si sarebbero fatti trascinare dalle correnti di talento, ma era in Coppa dei Campioni che ogni singola energia doveva essere ben incanalata, per non lasciare nulla al caso e alla sfortuna. Trapattoni lo sapeva, e sapeva pure quanto in una competizione di episodi, programmare fosse l’errore principe.
Tant’è: si accodò all’entusiasmo, e in quel Gruppo B da brividi con Barcellona, Arsenal e AIK Solna (avevano superato il Lodz nei preliminari abbastanza agevolmente) il primissimo obiettivo divenne superare le grandi paure dei grandi stadi.
Prima partita: 0-0 al Franchi, proprio contro i Gunners. Seconda partita: ecco il Camp Nou, con Batistuta protagonista annunciato. Due anni prima, infatti, l’argentino aveva silenziato la Catalogna con un gol spettacolare nella storica semifinale di Coppa delle Coppe. Come finisce? 4-2 per i blaugrana. Poi, la Svezia, l’altro 0-0 e il 3-0 della sfida di ritorno con Batigol, Chiesa e Balbo. Insomma, serve una scossa. Serve riprendersi per continuare a immaginare un futuro in questa competizione. Serve battere l’Arsenal, nonostante il momento attraversato indichi i Gunners come strafavoriti del match. In quelle settimane, Trapattoni traballa più di una volta: perde contro Roma e Parma in casa, a Piacenza arriva l’ultimo passo verso la disfatta.
Pungolato in conferenza stampa, il volto del Trap è un sussulto di orgoglio: sembra sia rimasto solo lui a credere nei mezzi dei suoi ragazzi. Nelle parate di Toldo, nelle rincorse di Di Livio, nel genio di Rui Costa e in quella coppia d’attacco che forse, in Italia, solo l’Inter riusciva a superare per talento.
Ma dov’era finita quella tecnica? Perché la Viola sembrava una squadra neanche in grado di stringere i denti e compattarsi? Partì proprio da quel punto, Trapattoni. Reagendo d’istinto e sempre alla sua maniera. Prima regola: non prenderle. Poi una miccia avrebbe portato esplosione di qualità.
I leoni di Wembley
Quattro, quattro, uno, uno. Ecco come si presentava la Fiorentina davanti all’Arsenal, che non si fece spiegare due volte l’andamento della partita: sin dalle prime battute, aveva capito chi avrebbe fatto la gara.
Dunque, Gunners col giropalla; viola di rincorsa, rimessa e ripartenza. Vieira fisso su Rui Costa e viceversa, Enrico Chiesa obbligato dai rientri difensivi come se, per una notte, tutto quell’estro contasse meno dei suoi polmoni. La vera novità però è in difesa: tre difensori puri, Pierini e Repka con Firicano, a uomo con i diretti avversari, Bergkamp e Kanu con le incursioni (a turno) di Overmars e Petit. All’italiana, dicevano. Alla Trap, in fondo.
La Viola si schiaccia e prova a tenere botta, alla fine del primo tempo è tutto un guardarsi attorno, allo strapotere biancorosso in qualche modo domato, con i gradi di attenzione e determinazione schizzati in su come le possibilità di impresa. L’unica nota negativa: si è fatto male Cois, andrà dentro Lele Adani, che di norma farebbe il difensore centrale, che però in quell’unico esercizio tattico e corale si reinventa esterno destro di centrocampo. A provare a inventare, nel bel mezzo delle praterie da ripartenza, andrà Angelo Di Livio, che a inizio ripresa incrocia lo sguardo di Overmars e non lo perderà neanche più per un istante.
L’Arsenal riprende la partita proprio lì dove l’aveva conclusa: attaccando. Senza fermarsi. Senza alcun tipo di sosta. Troppo ghiotto il fianco offerto dalla squadra italiana, che sembra averne ma chissà per quanto. Che sembra resistere, ma quanto forte?
A decretarlo, proprio il tempo. Cioè un minuto, il 75. L’attimo che si fa storia, frammento incastrato nel godimento. O viceversa, qui fate voi. Comunque, a un quarto d’ora dal termine, Vieira prova la serpentina e Firicano si oppone: scivolata poderosa che porta la palla in zona Rossitto; dietro per Adani, a sua volta per Rui Costa. Poi Firicano e Heinrich di corsa che riceve. Che si avvicina all’area. Che vede con la coda dell’occhio il movimento sul lato destro di Batistuta.
È un attimo, appunto. Un istante incastrato. L’argentino supera il diretto avversario e, defilato, scarica la potenza di quel secondo in un destro secco. Seaman copre il palo, è basso per un eventuale cross, è sulle ginocchia e punta tutto sui riflessi. Scelta fatale. Gol della Fiorentina. Wembley non canta più.
San Francesco Toldo
Ora, delle tante gemme di Batigol in viola, probabilmente questa è quella che raccoglie più memoria collettiva. Del resto, l’ha detto stesso Gabriel: “Quello che più mi lega ai tifosi fiorentini è il gol di Wembley. Ci davano tutti per spacciati”.
Era vero, notoriamente vero. La Fiorentina aveva battuto l’Arsenal sconfiggendo i pronostici e le facili previsioni. Si era lasciata piegare, ma non si era mai spezzata. Tutto merito dell’idolo della Fiesole, per carità. Ma tanto di quella vittoria fu frutto delle mani e dei voli di Francesco Toldo.
Perché se il minuto di quella partita sarà sempre il 75, il merito è solo del portiere viola. Che farà suo un altro attimo, il numero 86. Fino a quell’istante, era stato semplicemente bravo e attento. Lì divenne perfetto: perché un pallone senza padrone arriva a Kanu, a tre metri da lui. E Kanu calcia, lo fa senza pensarci, di piatto verso l’incrocio dei pali. Lui si tuffa e in mezzo momento valuta la diagonale: la tocca, quel tanto che basta, e compie un autentico miracolo, di quelli a cui fatichi a credere anche dopo tempo.
The Trap era conclusa. La trappola di una Fiorentina che aveva solo l’orgoglio dalla sua parte e ne fece impresa sportiva. L’ultima, forse, o la più grande di un gruppo che stava per sciogliersi e consegnarsi alla storia: Batistuta sarebbe infatti andato via da lì a pochi mesi, Trapattoni l’avrebbe seguito. Poi Rui Costa, lo stesso Toldo, Repka. Dei Leoni di Wembley è rimasto solo quell’istante: il 75. E tutti i suoi sorrisi, increduli.