Analizzando commenti, sensazioni, più a caldo e più a freddo, vengono fuori trenta Inter–Juventus differenti. C’è chi ha visto parzialmente colmato il gap tra le due squadre, c’è chi invece l’ha semplicemente allargato. Magari alimentando un pensiero costante, che era fermo lì, e cioè che forse è proprio come dice Allegri. La Juve è una squadra forte, ma non più forte dell’Inter, o comunque non da scudetto.
Sarà. O meglio: non sarà. Perché il colpo inferto dai nerazzurri a San Siro è una di quelle ferite profonde: vanno prima tamponate, evitate ripercussioni e strascichi, poi si potrà tornare alla vita di tutti i giorni. Una vita certamente meno piena della diretta competitor, però con qualche batosta in più da gestire e un percorso non più in perenne discesa.
Juventus, chi esce ridimensionato da San Siro?
Ecco: se la Juve è sembrata in uno stato di grazia in un gennaio ai limiti dell’inverosimile, a San Siro diversi singoli sono usciti con le ossa rotte e i limiti certamente più evidenti. Il gioco più semplice, e pure quello più al massacro dal punto di vista juventino, è paragonare i due reparti di centrocampo. Da una parte la rottura di Locatelli, dall’altra la visione di gioco di Calhanoglu, in grado di anticipare tempi e mosse della squadra, perfetto nel suo giostrare gli inserimenti dei compagni.
Frutto di un lavoro, quello sul turco e con il turco, che con Loca non è mai venuto fuori. O forse non è mai stato fatto con costanza. Del resto, l’anno scorso i bianconeri avevano chiesto in fretta e furia Paredes al PSG per liberare l’ex Sassuolo dagli obblighi di regia. E poi? Poi l’hanno forzato lì, senza troppe storie. Accontentandosi di un giocatore perfetto per i compitini, meno se deve prendersi le luci della ribalta.
Anche Rabiot è cascato nel duello – almeno questo, ecco, pari – con gli avversari. McKennie ha fatto ciò che ha potuto, provando a supportare Cambiaso (pasticcione) e dando una spinta offensiva resa necessaria dalle mancanze di Yildiz. Bene, iniziamo da qui e facciamolo dalle premesse: era la prima, a 18 anni, a San Siro, con uno scudetto sostanzialmente in palio. Ottimo: eliminate le attenuanti, analizziamo la partita. E’ stato il secondo peggior bianconero per passaggi chiave e tocchi – solamente Vlahovic ha saputo fare di meno -, secondo invece per palle perse. Anche qui: DV9 gli copre il trono. Nessun tiro, tre dribbling. Mai la sensazione di avere a che fare con qualcosa di differente.
Allegri e Vlahovic: momento d’oro terminato
Lo stesso discorso si può estendere ai due pilastri su cui sembrava fondata questa continuità juventina. La prima era basata sulle 7 reti in 6 partite – prima di San Siro – di Dusan Vlahovic, al quale andava necessariamente contato anche l’assist fatto a Rabiot nel match interno con la Roma. Era in uno stato semplicemente perfetto: fisico, psicologico. E dopo quell’errore, quello stop mancato sul più bello, ora toccherà vedere come reagirà e quale sarà l’effetto rebound che difficilmente potrà essere evitato, soprattutto da un giocatore che fa dell’emotività la sua forza e la sua croce.
Poi Max. Max Allegri. Dopo il pari di San Siro ha parlato di crisi, ma in realtà ha pareggiato una partita viziata da una squalifica e perso contro la prima della classe. Se non si trattasse della Juventus, ma solo di una squadra che ha come obiettivo dichiarato la partecipazione alla prossima Champions League, si direbbe che tutto possa fare serenamente parte di un percorso. E invece? Invece no: c’è qualcosa di più profondo, c’è uno sbandamento in atto. E c’è la paura, alla fine della fiera, che la Juve senza il duello energizzante per il vertice possa perdere terreno e farsi prendere dallo sconforto.
A quel punto, come sarebbe rivalutato anche il lavoro dell’allenatore? Da capitano nella tempesta a conducente senza vento avverso. Allegri sa di dover ri-mettere mano al progetto, cambiare e rivalutare determinate certezze del gruppo, pronte a sciogliersi come neve al sole. Il momento d’oro, quello da Re Mida, è concluso e lui lo ha capito benissimo: sulle onde lunghe ci ha costruito una carriera, negli ultimi due anni un quarto e un terzo posto piuttosto agevole (senza considerare l’intorno). Il naufragio non è contemplato alla Continassa, dove sognavano di arrivare prima di tutti e invece ora si fanno i conti con la banalità di un obiettivo minimo raggiunto. Tutto okay, certo: ma vuoi mettere l’emozione dell’impossibile?