Internet non esisteva a cavallo degli anni 70 e 80 e per capire quanto fosse forte un giocatore di pallacanestro ancora non esploso a livello nazionale, ma di cui cominciavano a parlare in tanti, era necessario andare a vederlo di persona.
Nessun filmato da cercare su Youtube, nessuno streaming da consultare, dovevi recarti dentro un palazzetto, magari freddo e poco ospitale e goderti le perle che i campioni del futuro potevano offrire ai tuoi occhi.
In Italia come in Unione Sovietica, negli Stati Uniti come in Australia, in Spagna come in Jugoslavia.
Già, anche e soprattutto nella vecchia e frantumata in mille pezzi Jugoslavia, scrigno prezioso dal quale sono venute fuori perle di una bellezza disarmante, risultato di un miscuglio non ben precisato di talento e lavoro in palestra, con unico denominatore comune: la tragedia delle divisioni.
In più di un’occasione avrete avuto a che fare con documentari, film, articoli di giornale, libri e brevi racconti di campioni sacrificati ad una legge più grande di loro, inconsapevoli protagonisti di un’epoca in cui tutto doveva arrivare secondo, dopo “l’appartenenza”.
Uno dei casi che meglio rappresentano questo drammatico quadro storico, è il rapporto di profonda amicizia prima e di contrasto mai risolto poi, intercorso tra due dei giocatori più forti della storia della pallacanestro mondiale, Drazen Petrovic e Vlade Divac.
Fratelli in campo
Petrovic nasce il 22 ottobre del 1964 a Sebenico, una meravigliosa città dell’attuale Croazia incastonata lungo le coste dell’Adriatico, centro nevralgico della Dalmazia, meta, ancora oggi, del turismo italico a caccia di un posto lontano dalle caotiche grandi città del nostro paese.
Divac è più giovane di qualche anno, viene messo alla luce il 3 febbraio del 1968 a Prijepolje, piccola cittadina del distretto di Zlatibor nel cuore della Serbia centrale.
La pallacanestro in Jugoslavia è uno sport molto più che amato, è una sorta di rito al quale ogni bambino dell’epoca deve sottostare, poi saranno gli eventi a decidere se diventerà IL SUO sport, intanto un pallone a spicchi gli verrà passato in un campo di pallacanestro, poi si vedrà.
È il nord-est italiano ad accorgersi per primo dell’incredibile fucina di campioni che la Jugoslavia sforna soprattutto in quegli anni: Zarko Paspalj, Zelmir Obradovic, Velimir Perasovic, Dino Radja e Toni Kukoc sono solo alcuni nomi che tornano alla mente per chi ha avuto la fortuna di ammirarli dal vivo.
Uno dei più straordinari cantori di questo sport, il triestino Sergio Tavcar, ha per anni seminato giornali e riviste dei più incredibili aneddoti riguardanti Divac e Petrovic, tanto da segnarne per sacri punti tutti i passaggi delle loro carriere. Troverete facilmente qualcosa in rete delle sue meravigliose conferenze.
Ed è anche grazie a Tavcar, tra gli altri, che sappiamo che uno dei primi incontri tra Drazen e Vlade avviene in una palestra jugoslava all’interno della quale i due vengono convocati per partecipare ad un raduno giovanile nazionale.
Fu proprio Divac, molti anni dopo, a raccontare della reciproca sorpresa che i due provarono nel vedere giocare il proprio compagno, sorpresa che divenne ben presto stima e affiatamento negli anni a venire.
Il primo vero grande successo di quella celestiale nidiata, arriva nel 1990 ai mondiali di Buenos Aires in Argentina quando, in una finale indimenticabile, la squadra di Dusan Ivkovic fa deragliare la superpotenza sovietica allenata da Vladas Garastas.
Divac e Petrovic fanno vedere al mondo intero in che modo il basket diventa una forma d’arte, una specie di uomo solo formato da 5 elementi che si muovono in attacco e in difesa praticamente all’unisono, unito come un paese.
L’estate precedente, quella del 1989 apriva una stagione strepitosa per i due campioni, entrambi draftati nel campionato professionistico americano, la NBA, con sorti alterne.
Divac viene scelto alla 26 e si trova subito a dover affrontare un ruolo di “leggerissima” importanza: sostituire Kareem Abdul Jabbar sotto il ferro dei Los Angeles Lakers.
L’amicizia con Magic Johnson e una fortissima personalità, lo aiuteranno a superare tutte le difficoltà, anche quella dovuta ai fischi a lui riservati per alcune “scenate” non proprio consone ad un esordiente come lui.
Petrovic sceglie la NBA nello stesso anno di Divac, dichiarando che è ormai stufo di sollevare trofei in Europa e ha bisogno di nuovi stimoli per dimostrare a tutto il mondo di che pasta è fatto.
Il suo percorso iniziale è più difficile rispetto a quello di Divac, il primo anno del suo arrivo a Portland centra subito la finale NBA, ma fatica a vedere il campo, anche a causa dei continui mugugni dei suoi compagni di squadra che lo trovano troppo individualista.
Il pubblico statunitense, al contrario, lo adora e questa feroce contrapposizione spiazza il giovane Petrovic, al quale Divac non fa mancare la presenza, cementando quella che ormai è diventata una vera e propria amicizia sincera.
Divisi dalla storia
Ma l’idillio non durerà a lungo, anzi, sarà proprio la finale del Campionato del Mondo in Argentina a dare il via ad un periodo non esattamente pacifico tra i due.
Mentre i componenti della nazionale jugoslava esultano per il titolo appena conquistato, un tifoso di origine croata prova ad avvolgere con una bandiera del proprio paese Vlade Divac, il quale non apprezza il gesto e la rifiuta con sdegno.
Durante il decennio appena concluso e per buona parte degli anni novanta, la Jugoslavia venne falcidiata da tutta una serie di guerre di supremazia etnica che frammentarono la nazione in scontri tra fazioni tra cui i croati-cattolici (come Petrovic) e i serbi-ortodossi (come Divac). I rapporti tra i due rimangono tesi dopo l’episodio della bandiera, le ragioni della storia prevalgono su quelle del campo e, cosa più importante, su quelle del cuore. Due amici inseparabili, due artisti della palla a spicchi come raramente se ne sono visti in Europa.
La storia però, beffarda e crudele fino al sadismo, presenta un conto salatissimo: prima a Drazen Petrovic, che il 7 Giugno del 1993 perde la vita su una sdrucciolevole autostrada tedesca, privando il mondo del mozart del basket. Poi ovviamente a Vlade Divac, che non si perdonerà mai le parole non dette all’amico, che se potesse riavvolgere il nastro della storia magari passerebbe quella bandiera al compagno, come lui faceva con quei palloni da basket carichi di poesia.
Anni dopo fu lo stesso Divac a spiegare che il suo gesto faceva capo alla sua idea di una Jugoslavia unita e non certo al supposto odio verso la Croazia che proprio nell’anno successivo ottenne l’indipendenza dallo stato jugoslavo.
Ma non andò così.