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Mai uno sguardo o una parola fuori posto, sempre testa bassa e lavorare. Nacque così la storia di Tim Duncan, un giocatore che ha impressionato in campo per la sua efficiente semplicità. Cinque anelli Nba, premio di Rookie of the Year, 2 Mvp della Regular Season e 3 Mvp delle Finals: potremmo stare qui all’infinito ad elencare i riconoscimenti ottenuti nella sua carriera, il tutto improntato ad una caratteristica ormai quasi dimenticata ai giorni nostri, ovvero l’umiltà. Questo è stato in breve Tim Duncan, godetevi il viaggio.

Nuoto o pallacanestro?

Nato il 25 aprile 1976 a Saint Croix nelle Isole Vergini (USA), Duncan, prima di diventare uno dei più grandi giocatori di pallacanestro sulla terra, aveva un sogno nel cassetto e si stava impegnando per farlo diventare reale. Avrebbe voluto essere un nuotatore olimpico, un po’ come la sorella Tricia, che partecipò alle Olimpiadi di Seul 1988 rappresentando gli Stati Uniti.

Due furono gli eventi che lo costrinsero ad abbandonare il proprio sogno: la morte della madre (cancro al seno) nel 1990 e, un anno prima, la distruzione della piscina di Saint Croix ad opera dell’uragano Hugo. Il risultato fu che Duncan dovette allenarsi nell’Oceano, ma la sua paura per gli squali lo obbligò a ripiegare su un altro sport, la pallacanestro, rinunciando così alle Olimpiadi di Barcellona 1992. A guidarlo dal primo giorno fu Ricky Lowery, ex cestista e marito della sorella, grazie al quale iniziò un percorso memorabile – il numero 21 portato da Duncan sulla canotta è riferito proprio al cognato.

Il college e lo sbarco in Nba

Tim rimase per tutti e quattro gli anni a Wake Forest (Winston-Salem, Carolina del Nord), una scelta che sembrerebbe scontata, ma che non lo è affatto. Decise, prima di effettuare il grande salto in Nba, di laurearsi in psicologia: nel frattempo, con la canotta dei Demon Deacons vinse nel 1996 e 1997 il premio di NCAA Player of the Year, giusto per non farsi mancare nulla.

E poi il Draft 1997. Il destino lo prese per mano e lo portò nel luogo perfetto, almeno per lui: a San Antonio. Pur avendo più probabilità di ottenere la scelta numero uno, Grizzlies e Celtics rimasero a bocca asciutta, battuti proprio dagli Spurs che, condotti dalla fortuna, si gettarono a capofitto sull’occasione appena capitata. Era appena nato un due clamorosamente talentuoso: Tim Duncan e l’Ammiraglio David Robinson, a cui si aggiunse la mente di coach Gregg Popovich.

I primi due titoli

Nella prima stagione il nativo delle Isole Vergini mantenne medie da assoluto veterano, ovvero 21.1 punti, 11.9 rimbalzi e 2.9 assist ad allacciata di scarpa, che gli valsero il premio di Rookie of the Year. L’alchimia della squadra era già di alto livello, ma questo non bastò ad evitare l’eliminazione alle Western Conference Finals 1998 per mano degli Utah Jazz, i quale poi caddero in finale contro i Bulls di Jordan, Pippen e Rodman. Niente paura perché nell’annata successiva gli Spurs ci riprovarono e il risultato fu decisamente migliore. La squadra composta dal duo Duncan-Robinson, ma anche da Sean Elliott, Avery Johnson, Steve Kerr, Will Purdue e Malik Rose dominò la post-season, superando di slancio Timberwolves (3-1), Lakers (4-0) e Trail-Blazers (4-0), prima di non lasciare scampo nemmeno ai miracolosi Knicks (4-1), di cui abbiamo parlato su questi schermi qualche settimana fa. Duncan chiuse le Finals da miglior realizzatore (27.4 punti e 14 rimbalzi di media nella serie finale), davanti al suo maestro Robinson, guadagnandosi il primo titolo della sua gloriosa carriera.

Nelle successive tre annate i ragazzi di coach Popovich si scontrarono con la dura realtà della sconfitta, battuti dai Suns al primo turno dei playoff 2000 (Duncan fuori per infortunio) e dai Lakers nel 2001 e 2002. Nell’ultimo anno giocato da Robinson però, gli Spurs tornarono sul tetto dell’Nba, con Duncan pigliatutto: il caraibico venne nominato Mvp della stagione regolare e persino delle Nba Finals, quando San Antonio si impose sui New Jersey Nets di Kidd, Martin e Jefferson (4-2 la serie). Addirittura, in gara 6 scolpì sulla pietra una prestazione da consegnare ai posteri grazie ai 21 punti, 20 rimbalzi e 10 assist messi a referto. La vittoria dell’anello e il ritiro dell’Ammiraglio volevano dire una sola cosa: Tim Duncan era diventato l’uomo franchigia.

Il trio delle meraviglie

Pur senza il suo compagno di reparto, The Big Fundamental (come veniva soprannominato Duncan) non si sentì per nulla solo in quel di San Antonio. Accanto a lui poteva contare su altri due giocatori che, nel corso degli anni, diventarono, oltre che i suoi scudieri, anche suoi grandi amici. Stiamo parlando di Manu Ginobili e Tony Parker: un caraibico, un argentino e un francese si ritrovarono in casa Spurs e furono dolori per le squadre avversarie. Dopo essere stati eliminati alle Western Conference Finals 2004 dai Lakers (nella stessa serie in cui Derek Fisher segnò il buzzer beater che consegnò ai gialloviola il successo in gara 5), nel 2005 gli Spurs tornarono alle Finals, questa volta contro i Pistons. Duncan, Ginobili, Parker e anche Horry conclusero la serie in doppia cifra di media per punti realizzati, con lo stesso Tim che mise a referto 20.6 punti e 14.1 rimbalzi ad allacciata di scarpa nelle sette gare finali. San Antonio vinse la “bella” per 81-74 e agguantò il terzo anello in sette anni, il terzo anche per l’ala nativa di Saint Croix (che ottenne anche il premio di Mvp delle Finali). E se il 2006 fu l’anno di Dwayne Wade, nel 2007 gli Spurs si ripresero la scena. Ai playoff il team di coach Popovic ebbe vita facile sostanzialmente contro chiunque tranne che con i Suns di Nash, Stoudemire e coach D’Antoni, comunque sconfitti per 4-2. La superiorità di quegli Spurs era talmente evidente che in finale Duncan e compagni liquidarono i Cavs di Lebron James con un agile 4-0 nella serie.

La dinastia non finì qui, anzi il trio delle meraviglie continuò a dispensare pallacanestro, condotti in panchina dal visionario Popovic. San Antonio raggiunse la post-season per altre quattro stagioni, prima di agguantare, nel 2013 e 2014, di nuovo il palcoscenico più importante dell’Nba, le Finals. Quelle del 2013 risultarono amarissime per Duncan e compagni, costretti alla resa in gara 7, dopo che il tiro di Ray Allen nel sesto atto della serie permise ai Miami Heat letteralmente di “risuscitare”. Nel 2014 però venne servita la vendetta: gli Spurs, nel cui roster figuravano anche i nomi di Belinelli e Leonard, lasciarono solo le briciole agli Heat, battuti per 4-1 nella serie e soprattutto sconfitti di 15 o più punti in tutte le quattro gare vinte da San Antonio (solo il secondo atto della serie fu a favore di Miami, 98-96). Duncan raggiunse un obiettivo clamoroso, ovvero vincere l’anello in tre decenni diversi. L’apoteosi degli Spurs, ed in particolare del trio, era servita.

Il ritiro, la Hall of Fame e coach Popovic

La stagione 2015-16 fu l’ultima disputata da The Big Fundamental nella sua carriera, la numero 19, tutte con la maglia degli Spurs indosso e tutte caratterizzate dalla sua umiltà. Nel 2020 venne inserito nella Basketball Hall of Fame e non sarebbe potuto essere altrimenti, dato che ha vinto più di mille partite in Nba e, come ricordato, cinque anelli e svariati premi individuali (e ci sarebbe anche il bronzo ad Atene 2000 agguantato con Team Usa).

Nel suo discorso, dopo aver ringraziato prima di tutto la sua famiglia, ricordando anche la madre scomparsa, ha voluto esprimere gratitudine ai suoi ex compagni di squadra e a tutta l’organizzazione degli Spurs. E poi scelse di tenere per ultimo un ringraziamento speciale, quello a coach Popovic, con il quale ha condiviso tantissime esperienze dentro e fuori dal campo. “Non voglio parlare di lui, se la prende. Scusa, Pop. Lo standard che hai fissato è incredibile. Dopo il Draft sei venuto di persona sulla mia isola, hai passato del tempo con la mia famiglia, hai parlato con mio padre. Credevo fosse la prassi, non lo è. Sei una persona eccezionale, grazie per avermi insegnato che non è tutto solo pallacanestro. Grazie di tutto per la splendida persona che sei. Io mi sono fatto il culo, ma questa storia e questo viaggio non avrebbero senso se non considerassi tutti quelli che mi hanno guidato fin qui”.

E pensare che Tim provò a diventare anche allenatore nel 2019 (come vice proprio a San Antonio), ma un anno dopo capì che non era la sua strada. La migliore ala grande di tutti i tempi ha attualmente un “lavoro” ben più importante: tifare la figlia Sidney, promessa della pallavolo e centrale delle Stanford Cardinals in Ncaa.