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I Pistons sono conosciuti come una delle peggiori squadre dell’Nba negli ultimi anni, avendo perso nelle ultime due stagioni ben 133 partite (sulle 164 disputate) e avendo chiuso la scorsa annata all’ultimo posto (14-68 il record negativo). Attualmente sembra ritornata, seppur in parte, la luce (4 vinte e 7 perse nelle prime 11 gare giocate), anche se la stagione è lunga e tutto può ancora succedere. Ma c’è stato un tempo in cui Detroit ha potuto sognare in grande e persino agguantare tre anelli Nba, due dei quali consecutivi.

I primi tempi

La franchigia dei Pistons nacque precisamente nel 1941 con sede a Fort Wayne nello stato dell’Indiana. La denominazione precisa era “Fort Wayne Zollner Pistons”, poi diventato solo “Fort Wayne Pistons” nel momento dell’entrata nella BAA (Basketball Association of America) nel 1948. Ed ecco che l’avventura in Nba parte nel 1949, con i Pistons che raggiunsero le Nba Finals già nel 1955 e 1956: prima i Syracuse Nationals (4-3) e poi i Philadelphia Warriors (4-1) però vinsero la serie finale, lasciando a bocca asciutta Fort Wayne.

Lo spostamento e l’attesa prima della gloria

Nel 1957, anno del primo degli undici anelli dei Celtics, i Pistons si spostarono da Fort Wayne a Detroit, un cambiamento sicuramente importante per tentare di ampliare il bacino di pubblico che avrebbe potuto seguire le partite. Una scelta però che non portò i frutti sperati, dato che in campo i Pistons ebbero estreme difficoltà ad imporsi e, anche a livello di fan, non erano sicuramente la squadra più seguita della lega.

Dal 1957 al 1979 il record di Detroit risultò in negativo (più sconfitte che vittorie) in 19 occasioni su 22, e addirittura, a cavallo tra la stagione 1979-80 e 19080-81, i Pistons persero 127 delle 164 gare disputate. Una situazione che rimase “critica” fino al 1981 stesso: a sbarcare in Nba, e più nello specifico a Detroit, fu Isiah Thomas, playmaker inserito successivamente nella Hall of Fame e che farà le fortune della franchigia.

Back to back title

Thomas verrà innanzitutto affiancato da Bill Lambeer e Vinnie Johnson, con i Pistons che iniziarono ad avvicinarsi all’anello passo dopo passo. Nel 1985 si unirono al team Joe Dumars (18esima scelta al Draft) e Rick Mahorn, mentre un anno più tardi salirono a bordo anche Dennis Rodman e John Salley. Dal nulla nacquero dunque i cosiddetti “Bad Boys”, un team che entrò nella leggenda anche per il modo duro e brutale con cui decisero di fermare ogni avversario che voleva segnare o penetrare a canestro. Nello specifico, in quegli anni vennero “istituite” le Jordan Rules, alcune semplici regole per provare a frenare sua maestà Michael Jordan. La durezza con cui i Pistons giocarono negli anni ’80 venne replicaao ad esempio dai Knicks negli anni ’90, con la differenza in primis che New York non riuscirà a vincere in quelle stagioni l’anello e in secundis che la Detroit di cui parleremo nel dettaglio a breve aveva anche talento offensivo da vendere, e non solo armi difensive nel proprio bagaglio tecnico.

Il primo passo fu il raggiungimento delle Conference Finals 1987, in cui a trionfare saranno i Celtics di Larry Bird, ma Detroit fece una gran figura e mise il primo mattoncino alla propria meravigliosa costruzione. Nella stagione successiva i Pistons compirono il secondo step, raggiungendo le Finals, opposti ai Lakers: ad imporsi furono i gialloviola, ma a fatica in 7 gare, anche a causa dell’infortunio occorso ad Isiah Thomas, non al meglio in quella serie, seppur esemplare.

Il 1989 risultò l’anno buono, l’anno in cui i Pistons e la città di Detroit stavano aspettando da tempo, l’anno in cui Joe Dumars sarà Mvp delle Finals, dispensando pallacanestro in tutte le salse. Dal 6 al 13 giugno 1989 si disputarono nuovamente le finali tra Pistons e Lakers: questa volta la contesa non si protrasse per le lunghe, dato che Detroit schiantò i gialloviola per 4-0 nella serie, con Dumars protagonista specialmente in gara 2 (33 punti) e gara 3 (31), nonostante un James Worthy lodevole nel quarto atto (40 punti). Coach Chuck Daly e i suoi ragazzi ripeterono la grande cavalcata verso l’anello anche nella stagione successiva. Il gruppo rimase sostanzialmente invariato e ancora una volta i Pistons raggiunsero le Finals, battendo in rapida sequenza Indiana, New York, Chicago e, in finale, i Portland Trail-Blazers di Clyde Drexler (4-1). In questa seconda campagna vincente sarà Isiah Thomas a conquistare il premio di Mvp delle Finals, una sorta di consacrazione e di divisione in parti uguali dei titoli vinti tra lui e Dumars, i due protagonisti principali di queste due cavalcate.

L’ultimo anello conquistato

Tra ritiri e cambi di casacca, i Bad Boys vennero smantellati. Laimbeer e Thomas dissero basta alla pallacanestro giocata, Rodman sposò la causa prima degli Spurs e poi dei Bulls, mentre Dumars si ritirò nel 1999 e divenne poco dopo direttore sportivo dei Pistons. Nel 2002 arrivò la prima svolta: Detroit scelse Prince al Draft e firmò Billups e Hamilton, i quali si andarono ad unire al già presente Ben Wallace. Un passo alla volta, dicevamo. Nel 2003 Larry Brown si sedette sulla panchina dei Pistons al posto di Rick Carlise e nel 2004 un altro Wallace, al secolo Rasheed, si aggiunse alla squadra. Il conto alla rovescia per il titolo cominciò in quel preciso istante.

Il vero capolavoro venne realizzato proprio alle Finals 2004. Dopo aver sconfitto non senza difficoltà Bucks, Nets e Pacers nei primi tre turni di playoff, Detroit volò in finale dove ad attenderli c’erano i Los Angeles Lakers. Forti del three-peat agguantato dal 2000 al 2002, i Lakers di Kobe e Shaq (ma anche di Malone e Payton) erano ovviamente i favoriti di quella serie, ma i Pistons misero in campo quel quid in più per superare il difficile ostacolo. La serie si concluse per 4-1 in favore di Detroit, che tenne i gialloviola a soli 68 punti segnati in gara 3, un capolavoro difensivo da cui i Lakers non si ripresero più. Chancey Billups, Mvp delle finali, guidò la sua truppa con 21 punti e 5.2 assist di media in quelle cinque partite. Quello risultò essere il terzo e ultimo titolo fin qui raggiunto dai Pistons, i quali non riuscirono a ripetersi nel 2005, sconfitti per 4-3 in finale dai San Antonio Spurs di Tim Duncan.