I Chicago Bulls sono una franchigia nata nel 1966 e la cui “esplosione” in termini di fama è avvenuta negli anni ’90, l’epoca in cui Michael Jordan, insieme a Scottie Pippen e Dennis Rodman tra gli altri, decise di dominare l’Nba. Dopo avervi descritto i titoli vinti dai Celtics, dai Lakers e dai Pistons, proseguiamo con il terzo capitolo del nostro racconto, raggiungendo Chicago in Illinois, casa dei Bulls vincitori di sei anelli Nba.
L’antefatto
Come spiegato nel precedente articolo riferito alle franchigie Nba, i Bulls vennero fondati nel 1966, chiudendo la prima stagione della propria storia con un record di 33 vinte e 48 perse e uscendo al primo turno di playoff, sconfitti dai St. Louis Hawks (3-0 la serie). Il primo record positivo venne agguantato nell’annata 1970-71, quando i Bulls, guidati da Bob Love e Jerry Sloan, conclusero la stagione regolare a quota 51 successi (a fronte di 31 sconfitte), anche se, ancora una volta, il primo turno playoff fu fatale – a vincere saranno i Lakers, stesso epilogo che si verificò nelle due annate successive. La maledizione terminò nel 1974, con i Bulls che superarono i Pistons, prima di cadere contro i Bucks alle Western Conference Finals, in un anno in cui la lega poteva contare su 17 franchigie. Dal 1976-77 al 1983-84 Chicago visse sulle montagne russe, tanti alti e bassi, con diverse esclusioni dalla post season. Ma dal Draft 1984 giunse la riposta a tutti i problemi: il suo nome è Michael Jeffrey e il suo cognome è Jordan, dovreste averne sentito parlare.
L’inizio dell’era Jordan
I Bulls ricevettero la chiamata numero 3, con la quale firmarono sua maestà MJ, scelto dopo Hakeem “The Dream” Olajuwon (ai Rockets con la pick 1) e dopo Sam Bowie (ai Blazers con la pick 2). Al suo primo anno nella lega, Jordan viaggiò a 22.7 punti di media, preludio del fenomeno che sarebbe stato in quegli anni: nel frattempo, la sua squadra vinse 38 delle 82 partite disputate, qualificandosi ai playoff, salvo poi uscire al primo turno contro i Milwaukee Bucks (e con Jordan che aumentò le sue cifre realizzative). La franchigia dunque, nello specifico nella figura dell’executive Jerry Krause, aveva capito che su Michael fosse possibile investire. E allora arrivarono i primi acquisti, ovvero John Paxon, Charles Oakley e George Gervin tra gli altri.
La prima vera manifestazione di netta superiorità da parte di MJ fu la prestazione individuale offerta dalla guardia dei Bulls in gara 2 ai playoff 1996 contro i Celtics, match in cui Michael mise a referto ben 63 punti. Una performance per i posteri, resa ancora più celebre dalle parole di Larry Bird al termine del match: “Ho visto Dio travestito da Michael Jordan”. Da quel momento iniziò la leggenda.
I nuovi e vincenti Bulls
Era solo questione di tempo prima che Jordan e i Bulls scalzassero Celtics e Lakers dal trono dell’Nba. E, ovviamente, MJ aveva bisogno di ulteriori rinforzi per provare ad agguantare il primo titolo. Jerry Krause continuò a muoversi in quel senso, aggiungendo al roster Horace Grant e soprattutto Scottie Pippen, scambiato da Seattle a Chicago in cambio di Olden Polynice. A piccoli passi si stava creando la squadra che avrebbe dominato l’Nba negli anni ’90 e, in questo senso, Oakley passò a New York, mentre Bill Cartwright fece il percorso inverso. E il 1989 fu un’altra data spartiacque: Phil Jackson divenne il coach dei Bulls.
Il primo three-peat
La storia, specialmente da questo punto in poi, è parecchio nota ed è stata esplicata anche nel documentario The Last Dance. Nella prima stagione del nuovo decennio, 1990-91, i Bulls imposero la propria legge, vincendo innanzitutto 61 partite in regular season, per poi battere Knicks, 76ers e Pistons in rapida sequenza ai playoff, prima del grande ballo. Alle Nba Finals, le prime per Jordan e anche per i suoi Bulls, Chicago dominò i Lakers (4-1) e Magic Johnson passò – metaforicamente parlando – il testimone a Jordan, vincitore anche del titolo di Mvp delle finali (31.2 punti di media nella serie). E se il primo anello non si scorda mai, quelli successivi diventarono quasi una bella abitudine.
“Wind City” migliorò addirittura il proprio record nella successiva annata, agguantando 67 successi. Jordan guidò ancora una volta i suoi per punti realizzati di media (30.1) e, come avrete ormai potuto immaginare, i Bulls tornarono alle Finals: questa volta l’avversario si chiamava Portland, nel cui roster figurava il nome di un certo Clyde “The Glide” Drexler, uno che veleggiava in aria con il pallone e che verrà spesso accostato a MJ come miglior giocatore della lega, anche per caratteristiche simili. Al numero 23 dei Bulls ovviamente questo paragone non piacque e decise dunque di provare la sua superiorità in finale (35.8 punti ad allacciata di scarpa a fronte comunque dei 24.8 di Drexler), con l’aiuto essenziale dei compagni. Chicago si sbarazzò in sei partite dei Blazers, vincendo il secondo titolo in fila.
La squadra creò una vera dinastia sostanzialmente nella stagione 1992-93, quando i Bulls raggiunsero nuovamente le Finals e vinsero il terzo anello consecutivo, il cosiddetto primo three-peat, imponendosi ai danni di Barkley e dei Suns nella finalissima (4-2). Le copertine furono ancora tutte per MJ, autore di 41 punti di media e vincitore del terzo titolo di Mvp delle finali, ma il tiro probabilmente più “clutch” della serie lo segnò John Paxon in gara 6 a Phoenix. Con Chicago sotto di due punti ad una manciata di secondi dalla fine, la palla è saldamente nelle mani di Jordan, dal quale tutti si aspettano un possibile game winner. Michael invece si libera ben presto del pallone e la circolazione dei Bulls permette a Paxon di essere libero da oltre l’arco con cinque secondi sul cronometro: il tiro è morbido e finisce sul fondo della retina, con i ragazzi di Phil Jackson che chiudono così la contesa e la serie, portando in trionfo il proprio compagno di squadra.
Il ritiro di MJ e il secondo three-peat
L’estate 1993 cambiò il corso della storia dei Bulls e dell’Nba stessa. La morte del padre (derubato e assassinato), le accuse di giocare d’azzardo e il richiamo del baseball portarono Michal Jordan ad una decisione inaspettata: lasciare la pallacanestro giocata. Il primo ritiro di His Airness ebbe un impatto devastante, soprattutto per i Bulls che, senza la sua stella e pur con un Kukoč in più, nei due anni seguenti non raggiunsero più le Finals – titoli vinti dai Rockets.
Il gruppo venne modificato: fuori Grant e Cartwright, dentro Harper, con Steve Kerr in entrata dalla panchina. E soprattutto, a stagione in corso (1995), MJ prese la clamorosa decisione di fare ritorno in Nba, anche se Chicago cadde al secondo turno di playoff per mano dei Magic. La dirigenza a questo punto, fece un ultimo grande regalo al proprio team: Dennis Rodman vestì la maglia dei tori. 72 vinte in RS (record che rimase tale fino ai Warriors 2015-16) e il ritorno alle Nba Finals, questa volta contro i Supersonics di Payton e Kemp. La regola era semplice, ovvero che quando i Bulls giocavano una finale tendevano a vincerla, e così accadde anche nel 1996. 4-2 a Seattle e Jordan nuovamente Mvp delle finali.
Nelle successive due annate i Bulls ottennero altri due titoli, entrambi contro gli Utah Jazz di Stockton e Malone, la grande coppia che, per poco, non riuscì a “distruggere” il regno di Chicago. Con i “se” e con i “ma” però non si fa la storia e infatti i Bulls vinsero sia nel 1997 sia nel 1998 in sei partite (4-2) per il secondo three-peat, con Jordan Mvp per l’ennesima volta. Citiamo a questo proposito l’ultimo minuto di gara 6 delle Finals 1998, 60 secondi (anzi ne bastarono 41) in cui il numero 23 chiuse la pratica sostanzialmente da solo. Prima i due punti appoggiati al tabellone per il -1, poi la rubata a Malone ed infine il canestro che tutti stavano aspettando. “Tutti lo aspettano, potrebbe essere l’ultima azione della sua carriera Nba… arresto, tiro, Jordan! Michael Jeffrey Jordaaaan!”, disse il telecronista di Sky (Tele+ all’epoca) Flavio Tranquillo, una cronaca che rimase impressa nella mente di tutti gli appassionati della palla a spicchi.
Quello del 1998 fu l’ultimo titolo fin qui conquistato dai Chicago Bulls. In quella estate l’executive Jerry Krause smantellò definitivamente quella squadra leggendaria, “tagliando i ponti” con Pippen, Jordan, Rodman, Kerr, Longley e coach Phil Jackson. Dopo diversi anni difficili, il fondo del tunnel fu intravisto, e poi toccato con mano, grazie al nuovo fenomeno in città, tale Derrick Rose, chiamato con la prima scelta assoluta nel 2008. Purtroppo la sfortuna ci vede benissimo e Rose, ritiratosi un paio di mesi fa, abbagliò il mondo intero per alcuni anni, prima che gli infortuni lo portarono a non essere più lo stesso degli esordi.