Quando si pensa ad una determinata parte degli Stati Uniti d’America, la mente vola verso sterminate lande di territori vergini o quasi, tagliate da serpenti di asfalto che coprono i collegamenti tra gli stati più disparati.
Quel tipo di comunicazione stradale ha avuto origine nello stesso momento in cui, con la nascita delle industrie di acciaio più importanti dell’America di inizio 900, fiorirono contemporaneamente anche quelle dell’automobile.
Le migrazioni di inizio 900
Il flusso migratorio che investì gli Stati Uniti a cavallo dei due secoli, fu talmente imponente che si fa fatica a distinguere se il successo dell’industria americana fosse stato originato dalla capacità dei residenti o, al contrario, dal coacervo di famiglie di tutto il mondo approdate in Stati come il Tennesse, il Kansas, il Texas o Nebraska.
Si calcola che circa 40 milioni di persone arrivarono dalle parti più disparate del Vecchio Continente. I tedeschi, circa 6 milioni, furono quelli che emigrarono in maggior quantità dalla propria nazione di origine, per raggiungere la terra promessa.
Irlandesi, italiani, Inglesi, scozzesi e gallesi si diressero in massa verso il porto di New York, dove buona parte di loro, soprattutto ebrei, polacchi e lituani, decisero di rimanere.
La meta preferita dalla maggioranza delle altre etnie, decisero invece di allungare il viaggio e trasferirsi definitivamente nel MidWest, dove la manodopera per le industrie, o la richiesta di minatori era vastissima.
Uno degli Stati che più degli altri venne segnato dall’arrivo di un numero spropositato di immigrati, fu certamente la Pennsylvania, un rettangolo di circa 120.000 Km² attraversato dal fiume Delaware e situato nel nord est degli Stati Uniti.
I serbi in Pennsylvania
Proprio nel periodo di cui stiamo parlando, arrivano dalla Serbia anche i membri della famiglia Maravich, un buon numero di uomini e donne che hanno percepito l’importanza che l’acciaio e il ferro rivestiranno durante quegli anni.
“Pittsburgh Press, Pittsburgh Press”, gridava un giovane strillone per consegnare i giornali freschi di stampa nelle prime ore del mattino nel quartiere di Aliquippa, originando piano piano il nomignolo con cui il 15enne Peter Maravich venne conosciuto fin da subito.
Di ritorno dalla guerra dove fece furore sul fronte contro i giapponesi, Peter Maravich conobbe una donna, Jelena Santini, ex moglie di un italiano che, al contrario, non tornò mai dal fronte.
Ma Jelena, anche lei, aveva origini slave e per farsi sposare dal suo nuovo fidanzato, gli intimò di cambiare lavoro e passare da pilota di aerei ad allenatore di pallacanestro.
Un altro Pete
Ad Aliquippa, il 22 giugno del 1947, nasce un bimbo destinato a diventare un’icona del basket professionistico americano, grazie alla sua capacità realizzativa unita ad un senso del gioco pari a pochi altri.
Di cognome fa Maravich e, sì, avete capito bene, è figlio di Peter Press Maravich e di Jelena Santini.
Seguendo un’usanza tutta statunitense, papà Pete decide di chiamare il proprio primogenito con il suo stesso identico nome… No… questa volta avete capito male, non Peter, ma proprio Peter Press Maravich.
Papà Peter aveva intenzione di diventare un giocatore di basket professionista, ma la guerra gli rubò gli anni migliori della sua maturazione cestistica e, una volta nato il piccolo Pete, promise a sé stesso che il piccolo sarebbe diventato ciò che lui non divenne mai.
Fin da piccolo, Pete figlio, ha una guida speciale, che lo segue come un’ombra, lo pungola, insiste nella sua crescita dentro i campi di basket, dorme col pallone.
Ogni categoria giovanile di cui Pete fa parte, non ci sono rivali, porta la palla come nessuno, segna caterve di canestri in ogni partita e intanto il papà conta i giorni che lo separano all’esordio da professionista.
Subito campione
Il piccolo Pete assume fin da subito le sembianze del campione, anche perchè per buona parte della giornata ha il pallone in mano e non ci vuole molto affinchè gli venga in mente di sfidare i giocatori del papà ad infinite gare di tiro.
Piccolo come era, quando ancora non aveva 10 anni, aveva difficoltà a tirare la palla col gesto frontale che conosciamo tutti, allora, per caricare con gamba e braccia, faceva partire il suo movimento di tiro all’altezza dell’anca, facendo sembrare il tutto una sorta di pistolettata del vecchio Far West.
Ecco finalmente un soprannome tutto suo, Pete “Pistol” Maravich.
A 19 anni è giunto il momento di fare una scelta e, visto il legame con papà, la scelta non può che ricadere sulla LSU, l’Università Statale della Louisiana, guarda caso dove papà allena.
All’epoca le regole universitarie, vietavano alle matricole di giocare nella prima squadra dell’Università e per “Pistol” la squadra delle matricole è davvero troppo stretta per lui e il pubblico va a godersi tutte le partite di QUELLA squadra, nella quale Pete segna 50 punti di media.
Nei successivi 3 anni Maravich segna 44 punti di media e viene insignito di giocatore dell’anno nel 1970. Realizza oltre 3.600 punti, in un campionato orfano del tiro da 3 punti. Ancora oggi è un record.
È proprio il suo ultimo anno all’università che decreta il suo passaggio in NBA nell’estate del 1970, quando viene scelto con la terza assoluta del draft dagli Atlanta Hawks.
Il passaggio alla NBA
Dopo l’anno da rookie passa qualche stagione in chiaroscuro complice anche qualche infortunio di troppo, e all’inizio della stagione 1974/75 passa ai New Orleans Jazz, dove ritrova lo smalto universitario, realizzando tantissimi punti, come nel 1977 quando, anche grazie ai 68 punti realizzati contro i NY Knicks, vince la classifica dei punti segnati con 31,1 di media.
La dicitura Jazz passa da New Orleans agli attuali Utah, dove rimane fino al 1980 con alterne fortune.
Chiude l’anno dopo facendo da chioccia ad un giovanissimo Larry Bird ai Boston Celtics.
Esattamente come successe tra giovanili, High School e Università, non fu mai protagonista di una squadra in lotta per un titolo e chiuse senza mai vincere un anello all’età di 33 anni.
La storia di “Pete Pistol” si chiude in modo tragico nel 1988 quando gioca una partita di esibizione a Pasadena e muore di infarto. Solo dopo si scoprirà che il talento di Pittsburgh aveva una malattia congenita dovuta all’assenza dell’arteria coronaria sinistra.