Questa storia parte da lontano e da un ricordo personale, quando a sette anni muovevo i primi passi con un pallone da basket in mano nella palestra del Liceo Classico Ugo Foscolo di Pavia. Il che sembra tutto normale, fino a che non si arriva al nome del primo vice-allenatore della mia, scarsa, carriera cestistica: Oscar Daniel Bezerra Schmidt, il più grande giocatore di basket brasiliano di tutti i tempi.
Era il 1992 e Oscar avrebbe disputato la sua terza ultima stagione con la gloriosa canotta della Fernet Branca Pavia, la seconda in massima serie dopo la promozione del primo anno, manco a dirlo da trascinatore assoluto.
A Mao Santa, la storia
Mao Santa era il suo soprannome, per la capacità di fare canestro da tutte le posizione, che lo ha portato a essere il miglior marcatore della storia del basket internazionale con oltre 49.000 punti e ben quattro Olimpiadi disputate.
Ma non fu solo la sua abilità nel mettere punti a referto a farne una leggenda assoluta: era anche un giocatore molto versatile, silenzioso fuori dal campo e nel modo di lavorare ma al contempo un leader, che ha ispirato diverse generazioni di giovani cestisti in tutto il mondo (chi scrive ne è un fulgido esempio).
Dopo il suo ritiro, nel 2003, ha continuato a lavorare nel mondo dello sport come allenatore e commentatore tv, per poi essere inserito nel 2013 nella Basketball Hall of Fame, la più grande onoreficenza nel mondo della palla a spicchi.
Che tipo di giocatore era
I racconti di chi in quel periodo allenava Oscar, o ne seguiva le gesta quotidianamente, parlano di un lavoratore instancabile, che non lasciava mai il parquet prima di aver segnato 100 tiri liberi consecutivi (e li faceva, potete giurarci). Un perfezionista, quasi psicotico, solitario, che curava ogni aspetto del suo gioco: dal tiro, che l’ha reso grande e gli ha fatto guadagnare il nome di Mao Santa e anche di Rey do triple, alla forma fisica, che ai tempi per uno sportivo sudamericano poteva essere un problema.
Non ha mai creduto che il talento fosse sufficiente per diventare il migliore, bensì che su quel dono si dovesse sempre lavorare. E condizionava chi gli stava intorno: allenatori, ragazzini, persino la sua futura moglie, conosciuta a 17 anni e diventata la sua prima “passatrice”.
Oscar era in grado di fare tutto in campo e a Pavia, con il compianto Tonino Zorzi in panchina, visse uno dei momenti più alti della sua carriera. Quel sistema di gioco era fatto su misura per il brasiliano, che era devastante quando riceveva gli scarichi e tirava, così come sapeva giocare in post basso per sfruttare i suoi centimetri. Tutto gli veniva semplice: andare oltre i 50 punti in decine di partite con 8-10 triple ad allacciata di scarpa, duellare con Drazen Petrovic per anni con club e nazionale dando vita a partite memorabili come la finale di Coppa delle Coppe del 1989 tra Caserta e Real Madrid, segnare 55 punti in una gara olimpica firmando un record ancora imbattuto, battere Team USA degli universitari David Robinson e Danny Manning nei giochi panamericani 1987 segnando 46 punti (“il mio più grande successo sportivo”, ha detto lui), oppure farne 24 al Dream Team di Barcellona ’92 nonostante una rovinosa sconfitta 102-87.
La malattia, la partita più difficile
La vita di Oscar non fu però solo successi e fama, ma anche una difficile malattia da sconfiggere. A 53 anni un cancro al cervello lo fece lottare oltremodo, rischiando di portarlo via senza che di lui si sentisse più molto parlare al di qua dell’oceano. Tanto spavento, poi finito in sollievo, perché il nodulo presente nella parte frontale sinistra, asportato dai medici dell’Albert Einstein di San Paolo, si rivelò benigno. Dopo due anni di quiete la ricaduta, e stavolta il nodulo era maligno, ma fortunatamente anche in questo caso tutto andò bene. Un altro regalo di Dio, in cui Oscar ha sempre avuto fede.
NBA, sedotta e abbandonata
C’è poi il capitolo legato alla NBA, lega nella quale Oscar avrebbe potuto e meritato di giocare. Ma tra le stelle e le strisce americane non ci finì mai, per scelta di vita e… allora, di salario. Il 19 giugno 1984, dopo due stagioni di altissimo livello a Caserta, Schmidt venne scelto dagli allora New Jersey Nets con la numero 131 su un totale di 228 giocatori (ai tempi c’erano meno franchigie, ma soprattutto dieci giri di draft). Arrivare a essere protagonista non sarebbe stato facile, la concorrenza era tanta e i posti meno rispetto a oggi, nonostante Oscar si fosse venduto benissimo.
Al Hernandez, l’allora director of player personnel dei Nets, aveva visto nel talento del brasiliano qualcosa di più anche del rookie Charles Barkley, scelto proprio in quel draft, lo stesso di Hakeem Olajuwon alla 1 e Michael Jordan alla 3. In quegli anni erano ancora pochi i non americani nella lega – Marciulonis e Petrovic i primi a starci con continuità – ma Oscar valeva quel livello. Peccato che venisse visto solo come uno specialista dalla panchina e che il suo contratto di un anno prevedesse uno stipendio tre volte inferiore a quello che percepiva a Caserta.
Usò allora la “scusa” della Nazionale (in caso di firma con i Nets non avrebbe potuto disputare le Olimpiadi di quell’estate), ma in realtà furono i soldi garantiti in Europa a tenerlo nel Vecchio Continente per altri 11 anni. Quello con l’NBA e gli USA diventò così un incontro solo in chiave olimpica o panamericana.
La fortuna di averlo avuto in Italia
Facile parlarne bene, direte voi, avendolo visto da vicino in un’età in cui i miti dello sport diventano miti per la vita, ma quel che è diventato e che rappresenta ancora oggi Oscar va oltre il parere personale.
In campo non aveva solo pregi, anzi era uno di quei giocatori che, dovendo sempre avere il pallone tra le mani, accentrava il gioco su di sé rendendo i compagni apparentemente inutili. Il suo modo di stare in campo lo allontanava parecchio dal concetto di gioco di squadra, eppure era in grado di condizionare l’intero gruppo, portandolo dalla sua, come a servirlo in ogni sua scelta di gioco. Questo grazie a un carattere timido e simpatico, che gli ha portato tanta gloria senza che questa venisse posta dinnanzi alla sua persona come un vanto. Una campione tanto forte in campo quando normale fuori da esso, oltre che allegro, sereno e grato alla vita e a Dio, che lo tiene ancora sulla terra nonostante le difficoltà che la stessa gli ha messo davanti.
Oscar resterà nella storia del basket mondiale perché inserito nella Hall of Fame, in quella d’Italia per ciò ha portato (anche in termini di trofei) a Caserta e Pavia, diventando nei primi anni ’90 un simbolo del movimento stesso e un mito per chi si avvicinava allora alla pallacanestro.