Da quando i Golden State Warriors hanno cominciato a fare proseliti che hanno riconosciuto alla squadra di Steve Kerr di aver rivoluzionato il gioco della pallacanestro, in tanti hanno provato a seguirne la strada con successi alterni.
Tale rivoluzione arriva da lontano, almeno da quando la squadra della baia dominava in lungo e in largo e le sfide tra Curry e Lebron facevano impazzire i tifosi.
Erano stili completamente diversi, ma non tanto perché i roster guidati da Lebron avessero chissà quale novità da proporre, quanto perché i ragazzi terribili di Kerr misero in campo un modo tutto nuovo di giocare a basket, rispetto a quello tradizionale.
Il cambio epocale
La miscela geniale che venne fuori dall’altrettanto geniale mente dell’ancora attuale capo allenatore dei GSW, risultò come una sorta di schiaffo alla storia consolidata della National Basketball Association che, nonostante sia da tempo in continua evoluzione, di cambiamenti così epocali ne ha visto pochi.
Il gioco è divertente, veloce, freneticamente ancorato ad un numero altissimo di possessi che, se si prendono in considerazione i meri punteggi dei Warriors dell’epoca, potrebbero far pensare ad una difesa poco accorta al motto di “facciamo un punto in più degli altri”.
Ma non era così. I dati analitici delle stagioni nelle quali i Warriors portarono a casa il titolo, segnatamente 2015, 2017, 2018 e il più recente, quello del 2022, ma più in generale da quando c’è Kerr a guidare la squadra di San Francisco, hanno sempre dimostrato senza ombra di smentita, che la media dei punti subiti per ogni possesso avversario, è sempre stata tra le migliori delle 30 franchigie NBA.
Tale cambio epocale ha sempre messo d’accordo tutti, tanto che in tanti hanno allargato la filosofia Warriors ad altri frammenti della società e, più in generale, delle nostre vite.
Lo Small Ball
Intanto sarebbe il caso di mettere d’accordo tutti sul fatto che l’epopea dei GSW, non ha rivoluzionato solo ciò che succedeva nel parquet, ma anche in parecchie dinamiche fuori dal campo.
Ne hanno giovato il merchandise, che ha battuto record su record di vendite sui siti specializzati; la vendita dei biglietti, tornate al 2018 e provate a trovare un biglietto per le partite casalinghe in Baia; gli ascolti televisivi.
Il tutto condito da successi su successi. Una sorta di win-win che sembrava non avere una fine e che, ovviamente, è però partita da ciò che Kerr costruì sul campo e sui palazzetti di tutti gli Stati Uniti.
L’idea principale fu quella di mettere in condizione i 5 giocatori sul parquet di creare, sia in attacco che in difesa, quella spaziature che giocatori più lenti e macchinosi, seppur con una maggiore prestanza e tonnellaggio, non avrebbero potuto assicurare.
La capacità balistica dei protagonisti faceva il resto, grazie ad un utilizzo sfrenato del tiro oltre l’arco, per il quale gli “Splash Brothers“, il cui ruolo fu azzannato da Steph Kerry e Klay Thompson, al netto dei “viandanti“, furono gli interpreti migliori di cui il mondo abbia memoria.
Atto finale?
Tutto finito dunque? Dimenticheremo i quintali sotto canestro e i movimenti da centro anni 70? Si risolverà tutto in un inguardabile tiro al piccione, possibilmente ampliando la distanza dal canestro e altre amenità varie, tipo il tiro da 4 punti?
Niente di tutto questo, amici appassionati di basket: abbiamo l’eroe che rimette in discussione tutto, esattamente come aveva fatto Kerr.
Eh sì, perché non sono stati in pochi a provare a seguire la strada tracciata dal coach nato a Beirut, ma nessuno con lo stesso successo e nessuno con la stessa tenacia.
La verità, questo è certo, è che il processo di evoluzione prettamente strategica, per non usare tutto ciò che ruota attorno alla tecnica, sarà difficile da fermare, ma ciò che è successo quest’anno sponda Minnesota Timberwolves, è la cartina di tornasole che per vincere, o se preferite, raggiungere grandi risultati, la via non è mai univoca.
Chris Finch, nuovo precursore
Chris Finch è un ex giocatore di basket che ha messo le basi fin da giovane per diventare uno di cui si deve parlare.
L’allenatore newyorkese non trovò casa da free agent nella NBA di inizio anni ’90, per cui si trasferì in Europa per seguire i suoi sogni di giocatore, ma la carriera non fu tra le più gloriose, tanto che durò per pochissimo tempo, meno di 6 anni.
Proprio in Inghilterra, agli Sheffield Sharks, squadra per la quale aveva giocato solo un anno prima, Finch diventa allenatore nel 1997 e porta quella squadra a vincere titoli su titoli, tanto da diventare un punto di riferimento per il basket inglese.
Nel 2003 comincia il giro da capo allenatore in Germania, ai Giessen, per poi allenare in Belgio, ultima nazione europea prima del rientro negli Stati Uniti, dove, nel 2009, diventa capo allenatore dei Vipers, squadra che gravita attorno all’universo Rockets.
A Houston trova un posto come assistente di Bickerstaff, ma la carica diventa quasi subito quella di “associate head coach” nel 2011, stessa carica che troverà a Denver 4 anni dopo e a New Orleans nel 2017, prima di tornare assistente nel 2020 ai Raptors.
Nel 2021 la sua occasione della vita. Diventa capo allenatore dei Wolves in corso di stagione al posto del cacciato Ryan Saunders e l’anno successivo, alla prima stagione completamente “sua”, chiude la stagione con un record positivo di 46 vinte e 36 perse.
A parte l’episodio sfortunato dell’infortunio al ginocchio durante il match contro i Suns nei playoff del 2024, quando Conley ha attentato pesantemente alla sua salute fisica, Finch è l’allenatore che ha portato la sua squadra a effettuare la rimonta più incredibile in una partita di gara 7, contro i campioni in carica dei Nuggets, che erano avanti di 20 punti, guadagnandosi così la possibilità di giocare la finale di Conference.
Due centri, anzi, tre
Durante l’estate del 2022, nella notte del primo luglio, il front office dei Wolves decide di seguire il consiglio del proprio allenatore e si decide a chiudere una trade che fa discutere: Malik Beasley, Patrick Beverley, Jarred Vanderbilt, Leandro Bolmaro e Walker Kessler, vengono spediti Salt Lake City, quartier generale degli Utah Jazz, in cambio di uno dei centri più forti della NBA, il controverso francese Rudy Gobert.
Lo scambio, che comprendeva anche quattro scelte a futuri draft, potrebbe avere un senso, ma in casa Timberwolves quel ruolo è coperto da tanti anni da un padrone di casa amatissimo, Karl Anthony Towns.
Ma come? Le squadre fanno a gara per mettere sotto contratto giocatori dai piedi veloci, dal tiro da fuori mortifero e possibilmente lesto e questi vogliono giocare con due centri?
“Ci sarà un trucco sotto, Towns andrà via presto“, dicevano gli scettici.
No, niente di tutto questo. “The Stifle Tower” trova immediatamente la sua dimensione in casa Minnesota e, se da una parte l’esperimento tecnico può essere sviluppato, è la testa che non funziona, visto lo scontro fisico contro il suo compagno di gioco Kyle Anderson, per il quale il francese viene sospeso per una giornata dalla stessa franchigia.
Nella sua prima stagione ai Wolves, Gobert gioca 30 minuti abbondanti in regular season, centrando i playoff, ai quali però sono solo 5 le partite giocate nella serie di apertura contro i Nuggets, persa 4-1.
A quella serie partecipa anche quello che doveva essere il suo gemello, Karl Anthony Towns, alle prese con una stagione tortuosa costellata dagli infortuni.
Non sono in pochi a storcere il naso al termine di quella sconfitta, peraltro mascherata dalla necessità di mettere muscoli da contrapporre a Nikola Jokic, in quella serie immarcabile.
La season 2023/2024
L’esperimento del doppio centro viene ripresentato nella stagione successiva e questa volta Finch trova il bandolo della matassa, facendo convivere i due giganti, probabilmente accontentando Towns che chiedeva maggiore libertà, lontano da canestro.
Le spaziature che garantisce Gobert, permettono al big man francese di aprire corridoi infiniti per le penetrazioni dell’uomo squadra Anthony Edwards, oltre che per i tiri dalla lunga distanza, dinamica della quale approfitta anche Towns.
Anche il minutaggio di KAT è molto elevato, in barba a chi pensava “non si può fare”.
Si pensi che nella semifinale di Conference contro i Nuggets ( ancora… ), Towns è stato protagonista della vittoria finale, giocando una media di 35 minuti, molto simile al minutaggio del suo compagno.
Ma se non ci credete ancora, allora fatevi servire con il minutaggio del terzo centro della squadra, Naz Reid, che nel primo turno contro i Suns ha giocato oltre 18 minuti di media a partita, addirittura aumentati nella serie contro Denver, oltre 22.
Risultato? Finale di Conference contro Dallas!
Le vittorie non conoscono una sola strada, Steve Kerr lo sapeva, Chris Finch, anche…