La difficoltà nello stilare le classifiche che fanno capo ad un periodo storico indefinito della National Basket Association, non sta tanto nel reperire i nomi più gettonabili, quello, tutt’altro è financo un divertimento per chi vi scrive, la difficoltà sta nel codificare il ruolo che ognuno di questi giocatori ha avuto all’interno di una squadra.
Il ruolo di Playmaker
La difficoltà si fa impresa nel momento in cui si parla dei 10 Playmaker più forti della storia, visto che sarebbe innanzitutto utile mettersi d’accordo sul significato del termine.
Nella tradizione più europeistica del termina, il playmaker è il costruttore di gioco, colui che, soprattutto a cavallo tra la fine degli anni 50 e la fine del millennio, portava la palla dalla propria metà campo, per poi dare il La all’azione offensiva.
Negli USA il concetto è un po’ meno ristretto, visto che il Playmaker non è esattamente questo. Il pubblico NBA ha sempre pensato ai Playmaker come quelli che potessero ricoprire almeno un paio di ruoli, se vogliamo restringere il campo mi costringerò a scrivere Point Guard e Shooting Guard, che svolgevano il compito meglio degli altri.
Ed ecco che buona parte della stampa specializzata americana, basterebbe, se ne avesse voglia il lettore, sfogliare qualche pagina WEB per rendersene conto, annovera tra i Playmaker gente come Michael Jordan, Kevin Durant, Kobe Bryant e, per tornare qualche anno più indietro, Larry Bird, Julius Erving e Bill Russell, che in Europa sarebbe totalmente ridicolo annoverare tra i PM.
Se facciamo quindi affidamento sui ruoli che storicamente hanno fatto da stella polare agli appassionati americani di NBA, essi sono convenzionalmente tutti occupati da center, power forward, small forward, point guard e shooting guard.
Questa premessa era doverosa, almeno per placare le ire funeste di chi troverà nella classifica che segue, nomi che non avrebbe voluto trovare e nomi che, invece, con suo dispiacere, non ha trovato.
Isiah Thomas
Non certamente dotato di un fisico preponderante, 1,85M per 82 Kilogrammi, il prodotto di Saint Joseph’s High School, ha portato i suoi Detroit Pistons alla vittoria dei titoli del 1989 e del 1990 e conquistando il titolo di MVP delle Finals nell’anno del secondo trionfo.
Proprio nei Pistons Thomas ha aperto e chiuso le sue 13 stagioni da professionista, diventando l’uomo simbolo della franchigia e capeggiando le classifiche di miglior assist-man, miglior marcatore e chiudendo al primo posto per palle rubate e per partite giocate nella storia cestistica di Detroit.
Stephen Curry
Il prototipo più moderno della specialità, ha avuto il suo periodo di maggior splendore quando nei Warriors, Steve Kerr gli ha trovato una collocazione in campo che gli ha permesso di diventare il punto di riferimento di un quintetto che ha cambiato per sempre il modo di giocare a pallacanestro.
La sua velocità di esecuzione, il modo di uscire dai blocchi e tirare coi piedi già rivolti a canestro o mettere in condizione il compagno meglio piazzato di guardare il ferro, ne fanno come uno dei giocatori small size più spettacolari della storia.
Con Klay Thompson, fermo a lungo per infortunio, ha formato una delle coppie più complete di giocatori che hanno passato la loro carriera fuori dalla linea da tre punti.
Chris Paul
È il miglior Playmaker in attività insieme a Stephen Curry, con una caratteristica di purezza nel ruolo superiore a quella dei suoi colleghi che ancora calcano il parquet in questi anni.
Nella stagione 2020/2021 è andato vicino a quel titolo che tutti i suoi colleghi e gli osservatori credono manchi ad un palmares di un giocatore che ha sempre dato tutto per le squadre con cui ha giocato, fermato molto spesso dagli infortuni più improbabili e sfortunati nei momenti topici delle sue stagioni.
Robert “Bob” Cousy
Uno che ha fatto la storia dei Boston Celtics, probabilmente ancora di più di quanto fece in periodi più recenti Larry Bird.
Vincitore di ben sei titoli NBA, rimangono delle sue gesta ben pochi filmati, ma se sarete fortunati a scovarne qualcuno, vi renderete conto di chi stiamo parlando.
Dal 1953 al 1960 chiuse in testa alla classifica di maggiori distributori di assist dell’intera Lega.
Conquistò il premio di MVP nel 1957 ed è stato chiamato ben 13 volte alla partita delle stelle.
Jason Kidd
Kidd ha avuto la caratteristica di vivere da protagonista i due anelli vinti durante la sua carriera, uno nel 2011 con i Dallas Mavericks e uno nel 2020 con i Lakers, da giocatore nella prima occasione e da Vice Allenatore nella seconda.
Giocatore completo, la sua prestanza fisica gli permise di sovrastare in potenza e atletismo i suoi diretti marcatori e di completare le sue prestazioni con un buon numero di rimbalzi al termine di ogni partita, alla fine della sua carriera saranno 7 di media.
È considerato un Playmaker puro tra i più forti dell’ultimo ventennio.
Oscar Robertson
Robertson è stato uno dei giocatori scelti alla prima, nel 1960 dai Cincinnati Royal, che non ha tradito le aspettative.
Fu una vera e propria sorgente del gioco dei Royals per un decennio e dei Milwaukee Bucks nella prima parte degli anni 70, dove fu protagonista del titolo vinto dalla squadra del Wisconsin e di tutta una serie di annate che ci permettono ancora oggi di ricordarlo come uno dei Playmaker più performanti.
Fino all’arrivo di Russell Westbrook che fece saltare il banco in questa speciale classifica, Robertson detenne il record di mantenere una tripla doppia di media nella stagione 1961/62. È ancora oggi il 12° marcatore di tutti i tempi.
Pete “Pistol Pete” Maravich
Realizzatore strepitoso in un’epoca il cui la NBA cominciava a dare qualche giro di vite in più alle difese, Pete Maravich era soprannominato Pistol Pete per la non esattamente convenzionale parte del corpo da cui avveniva la partenza del suo tiro.
È ricordato come il miglior giocatore di College della storia degli Stati Uniti, anche perché venne allenato a più riprese dal padre Press, che già aveva giocato in NBL e BAA.
Era uno straordinario tiratore fuori dall’area dei tre secondi, nonostante all’epoca non esistesse il tiro da 3 punti e un costruttore di gioco celestiale. Giocò con gli Hawks, i NO Jazz, gli Utah jazz e i Celtics dove chiuse la carriera.
Steve Nash
A suo modo il primo vero artefice della nuova frontiera dello Small Ball di cui Steve Kerr fu poi il fruitore principale grazie al ruolo chiave di Draymond Green in quel di San Francisco. Grazie anche e soprattutto alle doti visionarie di Mike D’Antoni, Steve Nash interpretò il ruolo di PlayMaker in una squadra che cominciava ad allontanare il baricentro dell’attacco dalle vicinanze del ferro, per aggiungere un pericolo in più sul perimetro, non un’impresa facile in una NBA abituata da decenni a vedere un bel centrone inchiodato tra post alto e post basso.
Nash è stato un celestiale passatore, tra i più spettacolari della Lega, due volte MVP in quel di Phoenix allenati proprio da D’Antoni, ma orfano di un titolo che proverà a portare a Brooklyn in qualità di Capo Allenatore.
John Stockton
L’uomo dei record, una glaciale mistura di forza mentale e resistenza ( giocò fino a 41 anni ), che lo resero una sorta di Dio etrusco da ammirare in quel di Utah, dal 1984 fino al 2003, dove, peraltro, nessuno indosserà mai più la sua gloriosa 12.
Detiene dei record impressionanti, che difficilmente verranno battuti, come quello degli assist complessivi distribuiti in carriera, 15.806, quasi 4.000 e 6.000 in più dei già citati Jason Kidd e Steve Nash.
Nessuno dimenticherà mai il Jingle “Stockton to Malone”, che ancora oggi riecheggia nei corridoi di tutti palazzi più nobili che ospitano le partite di NBA.
Magic Johnson
Della distinzione di cui vi abbiamo dato nota a inizio pezzo, Magic Johnson incarna probabilmente l’archetipo ideale del passaggio tra il Playmaker tradizionale e quello moderno.
I suoi 2,07 metri di altezza spiegano già il perché, visto che la sua era, segna la linea di confine tra il basket Old Style e il basket moderno, quello della confusione dei ruoli, del loro Mix. Bastano le cifre per parlare a suo favore, 19,5 PPG, 7 RPG, 11 APG, cinque titoli NBA su 9 finals raggiunte.
Chi meglio di lui?