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Garnett ha sempre lottato in campo e fuori. Ha cambiato il gioco e si è sempre distinto per abnegazione e umiltà, per forza fisica e qualità, senza dimenticare l’arte del trash talking, perfezionata nel tempo. Ha frequentato l’ultimo anno di high school alla Farragut Academy, prima di passare direttamente in Nba. È diventato la stella dei Timberwolves prima e dei Celtics dopo, raggiungendo anello e gloria nella stagione 2007-08. Ha vinto tutto ciò che si poteva vincere ed è considerato una delle migliori ali grandi di tutti i tempi, Duncan e altre leggende permettendo.

Il grande salto

KG nacque a Greenville, in Carolina del Sud, un ragazzo di campagna cresciuto in una casa di sole donne, tra cui sua madre Shirley, dalla quale imparò anche l’etica del lavoro. The Big Ticket disputò il suo ultimo anno da senior alla Farragut Academy, un high school di Chicago. Un anno particolarmente significativo, dato che condusse la squadra ad un record di 28 vittorie e sole 2 sconfitte, nominato anche miglior giocatore di tutte le high school e anche Mr. Basketball per lo stato dell’Illinois.

A questo punto il dilemma: iscriversi al college o compiere direttamente il salto in Nba? Una domanda su cui Garnett rifletté a lungo, anche perché, inizialmente, la sua volontà sarebbe stata quella di giocare per Michigan o per North Carolina. Il primo della storia ad aver saltato il college per sbarcare in Nba fu Spencer Haywood a fine anni Settanta, una scelta che in seguito presero anche Moses Malone (1974) e il duo Darryl Dawkins-Bill Willoughby nel 1975. Più avanti, anche Kobe Bryant, Lou Williams, Dwight Howard, Tracy McGrady e Lebron James effettuarono questo salto, lo stesso che decise di compiere anche Kevin Garnett: dalla Farragut Academy a Minnesota senza passare dal via.

Prima tappa: Minnesota

I Timberwolves lo chiamarono con la pick numero 5 al Draft 1995. Un mese prima dell’evento, gli agenti di KG organizzarono un workout al quale parteciparono diversi dirigenti, tra cui Kevin McHale, vicepresidente di Minnesota, e Pat Riley, capo allenatore degli Heat. Un allenamento in cui Garnett si mise in mostra e, un mese dopo, volò al Draft che si tenne a Toronto, il primo di due expansion team (Raptors e Grizzlies). Dopo Joe Smith, Antonio McDyess, Jerry Stackhouse e Rasheed Wallace, il Commissioner David Stern pronunciò il suo nome: The Big Ticket sbarcò a Minnesota.

Dopo un primo anno di ambientamento (10.4 punti e 6.3 rimbalzi di media senza raggiungere i playoff), Garnett divenne la stella dei Timberwolves, permettendo a Minnesota di raggiungere la post-season, complice anche l’arrivo di Stephon Marbury. Le cifre di KG aumentarono progressivamente (il massimo sono i 24.2 punti ad allacciata di scarpa nella RS 2003-04, annata in cui ottenne il premio di Mvp della stagione regolare) e i T-Wolves ottennero costantemente un posto ai playoff dal 1996 al 2004. Coach Flip Saunder traghettò i suoi fino alle Western Conference Finals 2004: in quel caso, la serie sarà vinta dai Los Angeles Lakers di Kobe e Shaq, ma Garnett, ben coadiuvato da Cassell e Sprewell, concluse comunque i sei incontri a quota 23.7 punti e 13.5 rimbalzi ad allacciata di scarpa.

Il suo matrimonio a Minnesota, durante il quale firmò nel 1997 un accordo pazzesco da 126 milioni di dollari per 6 anni, durò ben 12 stagioni, prima dello scambio: i Celtics si svenarono per raggiungere l’ala nativa di Greenville, offrendo Al Jefferson, Ryan Gomes, Sebastian Telfair, Gerald Green, Theo Ratliff e un paio di scelte al Draft, oltre a premi in denaro (sette giocatori per uno solo, uno scambio storico). Minnesota accettò il 31 luglio 2007, permettendo a KG di iniziare una nuova avventura.

Seconda tappa: Boston

La stagione 2007-08 si rivelò storica per la città di Boston. Oltre all’arrivo di Kevin Garnett (che quell’anno vinse il premio di miglior difensore), i Celtics poterono contare sui già presenti Paul Pierce e Rajon Rondo, e sul nuovo acquisto Ray Allen (in arrivo da Seattle). Un quartetto, allenato da coach Doc Rivers, che risulterà vincente: le 66 vittorie in Regular Season permisero ai biancoverdi di raggiungere la post-season come una delle favorite, per poi agguantare anche le Finals dopo 21 anni di digiuno. L’avversario al grande ballo furono i Lakers di Kobe Bryant, una rivalità rinnovata. 132 furono i punti che Boston mise a referto nella decisiva gara 6 al TD Garden, un massacro che portò Garnett e soci di ottenere il tanto agognato anello Nba, il primo (e unico) per KG.

L’amalgama risultò il segreto vincente di quel gruppo targato 2007-08. In particolare, fu proprio Paul Pierce a volere che The Big Ticket si spostasse a Boston e vestisse la maglia numero 5, un trasferimento che la dirigenza dei Celtics, come detto, accettò di compiere. Rondo invece rimase a Boston proprio per volere di Garnett: Rajon, sotto certi aspetti, può essere definito come il quarto violino più importante della storia della palla a spicchi, se si considera che Ray Allen rappresentava uno dei Big Three di quella squadra.

E, a detta dello stesso KG, anche Doc Rivers fu uno dei motivi per cui i Celtics riuscirono a vincere quel titolo, sfiorandone un altro nel 2010 (senza successo). “(Doc) è il padre che ha fatto di me un giocatore completo. Mi ha spinto più forte di chiunque altro, era anche molto saggio per quanto riguarda la famiglia. Nessuno è come Doc”.

Trash talking

Come accennato in apertura, KG è stato uno dei maestri del trash talking (letteralmente “parlare spazzatura”), diventato nel corso del tempo una vera e propria arte. Una sorta di guerra psicologica, in cui un determinato giocatore prova ad intimidire o a far perdere la calma al suo avversario, il tutto per trarne vantaggio per sé e per la squadra. Come però ha segnalato Garnett nel suo libro “Senza filtro”, scritto insieme a David Ritz, ci sono delle regole anche per effettuare il trash talking: evitare innanzitutto di parlare della mamma o della ragazza di un avversario; rispondere non solo a parole, ma anche sul campo; e infine, una volta che inizi a fare trash talking, non devi smettere fino al termine dell’incontro.

Tre semplici regole che Garnett seguì alla lettera nel corso della sua carriera e che lo fecero passare alla storia anche sotto questo punto di vista. Solo con sua maestà Michael Jordan il suo trash talking non funzionò. In un match di febbraio 1996 infatti, i suoi Timberwolves giocarono allo United Center contro i Bulls: nel corso della gara, MJ sembrava stesse facendo fatica a marcare JR Rider, compagno a Minnesota di KG. Quest’ultimo, dunque, partì con il trash talking, col senno di poi un’idea malsana. “Fu allora che Jordan mi lanciò uno sguardo assassino”, ha spiegato nel suo libro Garnett. Da quel momento, Jordan prese in mano le redini dell’incontro e distrusse Minnesota, concludendo a quota 35 punti e agguantando il successo. “Mike è un tipo di giocatore con cui non è il caso di fare trash talking. E non l’ho mai più fatto”.

Sempre nel suo scritto, The Big Ticket ha stilato anche una classifica dei suoi trash talker preferiti, che riportiamo: al primo posto “The Glove” Gary Payton, seguito da Charles Barkley, MJ, Vernon Maxwell, Paul Pierce e, infine, Antoine Walker.

Il clamoroso scambio e la fine della carriera

L’avventura di KG in Massachusetts si concluse nell’estate del 2013, quando Boston e Brooklyn si accordarono per uno scambio di grande spessore. Non solo Garnett, ma anche Paul Pierce e Jason Terry vestirono la maglia dei Nets, mentre Gerald Wallace, Kris Humphries, Marshon Brooks, Kris Joseph e Keith Bogans fecero il percorso inverso. I Nets e The Big Ticket si qualificarono ai playoff per due stagioni consecutive, uscendo al secondo turno nel 2014 (contro gli Heat) e al primo nel 2015 (contro gli Hawks).

Garnett tornerà a Minnesota a febbraio 2015 per chiudere la sua gloriosa carriera dove tutto era cominciato. Si ritirò definitivamente a settembre 2016, dopo aver conquistato un anello, un premio di Mvp della RS, un premio di difensore dell’anno e soprattutto dopo aver messo a referto più di 26.000 punti, più di 14.000 rimbalzi e più di 5000 assist in Nba. Il tutto senza dimenticare l’oro ottenuto con Team Usa alle Olimpiadi di Sidney nel 2000.