L’attualità ha riportato in auge il nome di Gianmarco Pozzecco, che dal 24 ottobre 2023 è tornato ad essere un allenatore di club: l’ASVEL Villeurbanne, squadra francese che disputa l’Eurolega, che lo ha scelto per sostituire TJ Parker. Una notizia che fa riaprire le pagine relative all’attuale coach anche della Nazionale italiana, che prima di diventare allenatore fu il giocatore italiano più entusiasmante che il nostro movimento abbia (probabilmente) mai conosciuto.
La Mosca Atomica
Come non ricordare quel soprannome, Mosca Atomica (che per intuibili motivi non gradiva), che accompagnò la carriera del Poz da quando mosse i primi passi sui parquet della massima serie: a Udine prima e Livorno poi. Ma fu col suo passaggio a Varese nel 1994 che l’epopea del classe 1972 da Gorizia prese realmente vita. Ancora oggi, la prima immagine che viene in mente pensando al Pozzecco giocatore è quella con la maglia biancorossa della città lombarda – di cui è diventato cittadino onorario – il naso rotto, i capelli rosso-fucsia, a festeggiare lo scudetto della stella, trofeo che mancava da quelle parti da 21 anni… e che non si è più rivisto da allora.
Pozzecco nel suo modo di giocare metteva insieme cazzimma, furbizia, talento, follia e, nei momenti clou, lucidità. Caratteristiche che lo hanno fatto amare dai propri tifosi, ma ciò che ha sempre colpito, rispettare da quelli avversari, anche dai più acerrimi rivali come quelli di Cantù, che nella sua ultima partita al Pianella lo omaggiarono con lo striscione “Ciao Poz: un saluto al nostro miglior peggior nemico”. Un gesto tanto onesto quanto potente, che descrive bene cosa il Poz fu per il basket tricolore degli anni ’90.
La stessa cosa accadde più o meno in tutti i palazzetti nell’ultimo anno di carriera da giocatore, con la maglia di Capo d’Orlando, una situazione che ricorda i farewall tour dei giocatori NBA più amati (Jordan, Kobe, Wade), che pur non essendo minimante accostabile da tanti punti di vista, rappresenta la cosa più simile vista sui nostri campi.
Inimitabile istrione
Il gioco di Pozzecco è sempre stato unico. Ricordava un po’ Iverson per altezza e movenze, ma parliamo chiaramente di livelli che non si avvicinano nemmeno poi tanto. Poz fu in campo istrione, combattente, estroso e senza freni, così come lo diventò in panchina o nelle apparizioni tv del suo post-carriera. Senza un fisico statuario, il dono che madre natura gli fece fu la rapidità: di testa, di piedi e di mani e un carattere che gli permise di superare tutti gli ostacoli frapposti tra lui e il suo obiettivo: il successo. Determinato come pochi altri, sfruttò il suo essere espansivo in campo e fuori, diventando nella storia e ad oggi, forse, il più grande personaggio del nostro basket.
Un carisma talmente elevato da riuscire ad affermarsi in un contesto dove insieme a lui crebbero altri talenti indiscussi di quegli anni: Arijan Komazec, Bill Edwards, Veljko Mrsic e gli amici e compagni di mille battaglie anche con la maglia della Nazionale: Andrea Meneghin e Giacomo Galanda. Lui era lì, pronto a prendersi il suo spazio, e alla fine li mise tutti in fila, risultando di quella squadra il giocatore più divertente, emozionante e amato dal pubblico. Genio e sregolatezza con una grande fiducia in se stesso, voglia di divertirsi e divertire: se avesse potuto fare un canestro spettacolare o un assist dietro la testa, lo avrebbe fatto senza pensarci! Sapeva che la gente pagava il biglietto per quello e di quello lui si nutriva, tanto da creare un rapporto simbiotico con Varese e i suoi fans, con aneddoti che si sprecano in cui i “concittadini” si immolavano per lui in alcuni post-partita in cui il livello di guardia usciva un po’ oltre il limite.
Anche oggi, quando lo si vede in panchina, del Poz giocatore si riconoscono tutte quelle caratteristiche che l’hanno reso celebre: vero, senza filtri, se stesso a tutti i costi, unico. Uno che se deve mandare a quel paese qualcuno in diretta televisiva, non si fa problemi, come non se ne fa a esprimere veracemente e di continuo l’amore paterno che nutre verso i suoi giocatori, che tratta come figli e per i quali si getterebbe nel fuoco.
Conosce il basket o lo rispetta
Il Pozzecco di oggi è un tecnico che non ha perso la propria brillantezza dal punto di vista carismatico e, di conseguenza, mediatico, ma che ha studiato, viaggiato e raggiunto panchine importanti che l’hanno visto crescere (Varese, Sassari, Italia, ora ASVEL) per meriti umani e sportivi. Gianmarco conosce il basket proprio perché lo ha vissuto da dentro per una vita e oggi cerca di trasmettere il suo sapere ai ragazzi che guida, non limitandosi nei comportamenti anche eccedendo, ciò che gli si critica soprattutto in veste di CT della Nazionale, dove siamo forse omologati e abituati a comportamenti “standard”.
Gioviale, non banale, imprevedibile e schietto, qualità per cui da anni quando parla lui, tutti ascoltano – anche chi non è o sarà d’accordo – e difficilmente non vengono toccati da ciò che sentono. E in panchina è un allenatore che sa vincere, perché stabilisce un legame talmente empatico coi giocatori – e coi tifosi – che crea famiglia, casa e tutti si sentono portati a dare qualcosa in più per quella causa, che diventa unitaria e di gruppo.
Petrucci l’ha scelto come condottiero della Nazionale anche perché bravissimo a fare da parafulmini, per quello stile mourinhiano che lo mette al centro dell’attenzione, togliendola alla squadra e levandole pressione. Forse anche Tony Parker, presidente dell’ASVEL, lo ha scelto per questo e altri mille motivi, ma sappiamo già che anche in Francia impareranno presto a conoscerlo e prenderlo senza misure, come fa lui con il basket e con la vita: o lo ami o lo odi.