Non manca tantissimo all’All Stars Game, l’evento con cadenza annuale che fa da spartiacque tra la prima parte della stagione e quella che, dalla seconda metà di febbraio in poi, tiene fede alla modalità “NBA true colors”, che metterà a nudo le vere intenzioni delle franchigie in lotta per la post season 2020.
Un format, un successo
La tre giorni dell’All Star Game è un appuntamento fisso della stagione regolare NBA, necessaria alla maggior parte dei giocatori per ricaricare le pile e, per quelli che vi partecipano, a passare un paio di giorni ai propri colleghi, senza lo stress e la competizione delle partite “vere”.
Lasciando da parte la partita delle stelle, è storicamente provato che la gara da tre punti e, ancor di più quella delle schiacciate, esercitano un appeal di non poco conto sulle preferenze degli spettatori, non solo di quelli americani.
La ragione di tale consenso va trovata all’interno di un contesto che esuli dalla visione di una mera partita, quella originaria tra Est e Ovest la cui formula è variata negli ultimi anni, che regali una scarica di “adrenalina contratta” per poche ore senza che le regole del basket interferiscano nello spettacolo.
Una visione tutta occidentale di una manifestazione che, in ogni caso, dovrebbe fare riferimento ai valori che lo sport mantiene sempre e comunque ben saldi, ma che, talvolta, strizzano l’occhio a tutto ciò che porta con sé una valanga di soldini.
La terza volta di Chicago
La città scelta per la kermesse cestistica di quest’anno è Chicago e, con ogni probabilità, sarà un’edizione a forti tinte giallo-viola-24, vista la dolorosa e terribile scomparsa della leggenda Kobe Bryant.
L’NBA All Star Weekend partirà nella città dei Bulls il 14 febbraio, per poi concludersi la notte del 16 con la consueta partite delle stelle che, per il terzo anno, non sarà basata sullo scontro Est-Ovest.
Con questa saranno tre le volte in cui Chicago ospiterà la manifestazione, dopo quelle del 1973 e del 1988.
Il programma della 69ª edizione prevede il solito menù giornaliero che metterà in vetrina il rookie challenge del venerdì, la NBA Skills Challenge e la gara da tre punti del sabato e la partita delle stelle della domenica, le cui due squadre saranno scelte e capitanate quest’anno, da Lebron James e Giannis Antetokounmpo.
Nella giornata di sabato, quella in cui i challenge e i contest saranno i più numerosi, si disputerà anche e soprattutto la NBA Slam Dunk Contest, o più comunemente conosciuta qui in Italia come “gara delle schiacciate”.
Dal 1984 lo spettacolo delle schiacciate
Il 1984 è l’anno del debutto della competizione che così successo ha avuto in alcune delle memorabili edizioni passate, ma che viene riproposta all’insegna delle geniali idee di chi quelle schiacciate le offre al mondo, più che in ossequio al mero gesto tecnico.
Gesto tecnico, al contrario, totalmente onorato nei primi anni del contest, quando nomi come Larry Nance ( padre di Larry Nance Jr), nel 1984, Dominique Wilkins, Spud Webb e Michael Jordan onorarono le pagine di un book foto ricordo che sembra non avere più il fascino di una volta.
Dall’ABA alla NBA
In realtà la storia della gara delle schiacciate cominciava qualche anno prima, più o meno a metà degli anni 70, quando l’American Basketball Association la propose durante l’ABA All Star Game.
Tra le tante edizioni che fecero da traino fino ai fasti di fine millennio, vi è da ricordare proprio quella che segnava la fine degli ASG targati ABA, quella del 1976, svoltasi a Denver, in Colorado, edizione che fece da antipasto alla fusione della stessa ABA con la NBA, avvenuta nell’estate di quello stesso anno.
In quell’occasione, abbandonando temporaneamente il tradizionale format che vedeva giocare i migliori di Est e Ovest scendere in campo per la partita delle stelle, si decise di mettere di fronte la squadra col miglior record, i Denver Nuggets, contro la solita selezione All Stars.
Per la cronaca vinsero i Nuggets 144-138, ma ciò che ci interessa più da vicino, fa capo a quello che successe tra il primo e il secondo tempo della partita, durante il quale un piccolo gruppetto di 5 campioni, si misurò in quella che è riconosciuta da tutti come l’edizione Alfa della gara delle schiacciate.
Julius Erving, in forza ai New York Nets, si aggiudicò il contest e una piccola parte di un montepremi da $1.200, un prize pool non esattamente faraonico, se si pensa agli stipendi di oggi.
Le migliori edizioni
Se guardiamo indietro alle edizioni targate NBA, invece, sono tanti i momenti che hanno lasciato un segno indelebile tra coloro che hanno vinto lo Slum Dunk Contest.
Ripescata nel 1984 e vinta dal già citato Larry Nance Senior, è l’edizione del 1986 ad aver attratto un numero impressionante di osservatori, curiosi e tifosi da tutto il mondo, dando origine a quel successo planetario di cui tutti oggi conosciamo l’entità.
Fu Spud Webb a mettere il punto esclamativo a quel contest, grazie ad una clamorosa prestazione che permise a questo incredibile atleta alto meno di un metro e 70cm, di mettere in tasca vittoria e trofeo.
Se vogliamo rimanere nel campo dei giocatori non propriamente oversize, più recente è il trionfo di Nate Robinson, all’epoca di proprietà dei New Yor Knicks, ad avere messo tutti d’accordo nell’edizione del 2006 quando “KryptoNate” sconfisse nella finale a due tale Andre Igoudala, colonna portante, molti anni dopo, dei successi dei Golden State Warriors.
Nate vinse altre due volte, nel 2009 e nel 2010.
Non poteva mancare in questa carrellata densa di spettacolo, della quale peraltro potrete trovare facilmente sul web tutte le gare di cui stiamo scrivendo, colui che da più parti è considerato il giocatore più forte della storia del basket professionistico americano, Michael Jordan.
“Il marziano col 23” vinse ben due edizioni del contest, quella del 1987 e del 1988 e tutti abbiamo ancora negli occhi la seconda delle due, quando, con un balzo dalla linea del tiro libero conclusasi al ferro, l’allora super stella dei Bulls dimostrò a tutti che l’uomo può volare.
Non esiste una speciale classifica che possa mettere tutti d’accordo sulle varie edizioni della gara delle schiacciate, se non quella dei giudici di gara, alcune volte presi in prestito da altre discipline che col basket poco hanno a che fare.
C’è chi pensa all’automobile “sorvolata” da Blake Griffin, vincitore nel 2011, oppure a quella di Dwight Howard che incantò il mondo con un mantello da Superman nel 2008, oppure ancora ai due contest vinti da Jason Richardson, 2002 e 2003.
Ma sono due le edizioni che probabilmente rimarranno nel cuore degli spettatori, quella del 2000, quando Vince Carter eseguì la leggendaria “360° Windmill”, ripresa in partita da Paul George 14 anni dopo e quella che molti chiamano ancora oggi “The contest”.
Ci riferiamo alla seconda cavalcata trionfale di Zach Lavine, allora in forza ai Minnesota Timberwolves, che nel 2016, dopo la sua prima affermazione del 2015, diede vita ad una meravigliosa lotta all’ultima schiacciata con Aaron Gordon, tra pupazzi animati e salti al ferro che poco hanno a che fare con le normali doti atletiche di un atleta.
In entrambi i casi, il primo perché Carter è universalmente riconosciuto come il miglior schiacciatore della storia NBA e il secondo perché la sfida in sé fu emozionante anche sotto il punto di vista della competizione, si è toccato un picco di tecnica e spettacolo che difficilmente si è visto in altre occasioni.
La sfida di Chicago
Nonostante alcuni rumors che in un primo momento avevano fatto pensare alla partecipazione dello stesso Vince Carter che proprio nei giorni scorsi ha invece smentito la notizia, l’unico rientro certo è quello di Dwight Howard, centro dei Lakers.
“Superman” sfiderà, tra gli altri, il campione in carica Hamidou Diallo dei Thunder, Derrick Jones Jr degli Heat e Anfernee Simons dei Portland Trail Blazers.