Si fa presto a dire Dream Team. Oggi come oggi è una locuzione a dir poco abusata. Basta vincere qualche partita di seguito ed è subito Dream Team.
Eppure al solo sentire quelle due parole, nella nostra testa si disegna un’immagine ben precisa, fatta di stelle e di strisce, di una squadra con quella iconica tuta “bandiera” che ha colpito l’immaginario di sportivi e non in una calda estate barcellonese del 1992.
Come si arriva al Dream Team
Solitamente le Olimpiadi sono l’esaltazione dello sport individuale e i classici sport di squadra (calcio e basket su tutti) portano sempre squadre giovanili per compiacere l’antica ed anacronistica regola del semi-professionismo. Ma già nel 1992 questo muro, vagamente perbenista ed ipocrita, è maturo per crollare e il piccone che apre le prime brecce arriva proprio dalla palla a spicchi.
L’altro muro, quello più importante che divideva Berlino est da Berlino ovest, era già caduto nell’89’, ed è importante per la nostra storia perché in qualche maniera funge da incipit: la dissoluzione dei regimi comunisti dell’Est, slavo e sovietico su tutti, permette ai migliori giocatori europei di emigrare e di misurarsi con il basket NBA.
Due nomi su tutti per capire la portata di questa rivoluzione: Arvydas Sabonis, il migliore centro europeo di sempre, e Drazen Petrovic, praticamente Mozart applicato al basket.
Fino a quel momento, in tutte le competizioni cestistiche internazionali gli Stati Uniti hanno presentato la formazione collegiale e quasi sempre questa bastava ed avanzava per portare a casa titoli. Ma sul finire degli anni 80′ la situazione cambia: le prime avvisaglie si notano alle Olimpiadi di Seul 88‘, dove la squadra di ragazzini americani viene letteralmente sculacciata in semifinale dall’URSS, innervata dalla generazione d’oro lituana guidata proprio da Sabonis. Ai mondiali di Buenos Aires del 1990 la storia si ripete e questa volta sono Petrovic e Divac con la loro ultima recita assieme nella Jugoslavia unita a battere i rookie a stelle e strisce.
Feriti nell’orgoglio da queste inconsuete debalce sportive, e preoccupati da quello che vedono fare tutti i santi giorni sui parquet mezza America dai giocatori europei, che ormai sguazzano in NBA come nello stagno di casa, la federazione cambia marcia.
Anzitutto il nome, si chiamerà d’ora in poi USA BASKETBALL. Come se fosse un marchio. E lo sarà.
Poi si sfrutta una modifica apportata al regolamento dalla Fiba: forse ingolosita dalle ultime competizioni internazionali, la federazione internazionale, da sempre antagonista NBA, permette agli States di portare alle Olimpiadi del 1992 anche atleti professionisti.
La costruzione del Dream Team
Bene, fatta l’America ora bisogna fare gli americani e quindi, chi scegliere per rappresentare gli States a Barcellona?
Prima di tutto il coach, e per questo ruolo viene scelto Chuck Daly. Solo a vederlo incute timore e quella faccia da duro è la stessa che ha fatto indossare ai suoi Detroit Pistons campioni NBA 89′ e 90′, con il ciclo dei Bad Boys guidati in campo da Isaiah Thomas.
Il suddetto Thomas è, all’epoca dei fatti, una delle stelle indiscusse della lega, e quindi è naturale pensare che sia perno centrale nella squadra di Daly. Invece no, tra tutta la parata di stelle che Daly si porta a Barcellona, Thomas non c’è.
Il motivo è semplice, e si riassume in un nome: Micheal Jeffrey Jordan. Air Mike non sopporta Thomas, a partire dal loro primo All Star Game, dove Isaiah lo tiene fuori dal gioco.
C’è di mezzo poi l’accesa rivalità tra Pistons e Bulls a complicare le cose. Rivalità che spesso trascende il sano agonismo: basti pensare che proprio coach Daly aveva introdotto per i suoi le cosiddette “Jordan Rules“: in pratica tutti i Pistons a turno dovevano impedire con ogni mezzo, lecito o meno poco importava, che Jordan arrivasse a canestro.
Bene, le premesse non sono proprio quelle di una squadra tranquilla, ma la qualità è talmente stellare da non destare preoccupazioni per l’esito del torneo.
Oltre a Jordan, sono chiamati a far parte di quella squadra anche i migliori uomini franchigia dell’epoca: Larry Bird dai Celtics, Pat Ewing dai Knicks, Charles Barkley dai Suns, la coppia dei Jazz Stockton-Malone, Clyde Drexler dai Balzers, David Robinson degli Spurs e Chris Mullin dai Warriors. Ovviamente presente lo scudiero di Jordan ai Bulls, vale a dire Scottie Pippen, e per mantenere una vena romantica viene portato anche un universitario che diventerà poi ottimo giocatore NBA come Christian Laettner, in ballottaggio fino all’ultimo con Shaquille O’Neill, che sarà la pick n°1 del draft 1992, ma che sconta la presenza nel roster di pivot leggendari come Ewing, Robinson e Malone.
Manca un uomo a completare i 12 che Daly ha intenzione di portare a Barcellona. Ovviamente manca lui, Earvin “Magic” Johnson, capo carismatico dell’NBA da oltre un decennio, vero uomo immagine e ancor di più simbolo dopo aver dichiarato al mondo intero la sua sieropositività nel Novembre del 1991.
Magic si era ritirato, ma l’affetto del pubblico, che l’ha praticamente imposto alla lega nell’All Star Game del 92′, lo ha riportato in campo, anche contro il parere di alcuni colleghi, tipo Karl Malone presente nella spedizione olimpica.
La squadra è quindi decisa e anche per chi non è molto avvezzo alla palla a spicchi appare chiaro come non ci sia alcuna discussione tecnica sensata sul torneo olimpico di Barcellona 92′.
Jordan contro Magic
Molto più interessanti sono le dispute interne e il sottile gioco di equilibri che Daly deve provare a mantenere. Del resto è uno spogliatoio di gente abituata a comandare nelle proprie squadre. Ci sono comunque alcune eccezioni, come il sempre misurato Robinson, lo scudiero Pippen e il piccolo pulcino Laettner, scaraventato in uno spogliatoio infernale.
Ma su tutti ci sono i due uomini simbolo: da una parte Jordan, dall’altra Magic. Rappresentano il vecchio e il nuovo e in un contesto competitivo e testosteronico come quello dell’NBA, l’andamento di quei giorni di ritiro pre olimpico servono a dare le coordinate per i prossimi anni della lega.
In pratica non si va a Barcellona per conquistare una medaglia d’oro. Qui si decide chi sarà il padrone dell’NBA, in un rituale quasi animalesco, dove i due leoni capobranco si fronteggiano per determinare chi dovrà sottomettersi all’altro.
La resa dei conti, arriva nel ritiro di Montecarlo. Il giorno della più spettacolare e cruenta partita di basket mai avvenuta su un parquet è il 22 Luglio del 1992. È quella, più di tutte le altre partite della competizione, la gara che tutti i giocatori di quella spedizione aspettavano. Con buona pace del barone De Coubertin e del suo spirito olimpico.
Dream team contro Dream team
Daly fa cacciare chiunque si trovi nelle vicinanze del campo d’allenamento: vuole, e pretende, che questa sia la pietra tombale di ogni frizione, di ogni tensione interna. Si comporta da coach accorto anche se rude: capisce che le regole del gioco sono queste, dove si deve marchiare il territorio e vige la legge del più forte. Intelligentemente prende questo gruppo di uomini e gli concede lo showdown definitivo, con la promessa che lo sconfitto accetterà il verdetto del campo, per veleggiare assieme verso il trionfo sportivo.
Tra i pochi testimoni anche po’ d’Italia con l’arbitro Duranti che, appena ritiratosi viene chiamato ad arbitrare la contesa. Subirà improperi e contumelie di ogni genere come mai gli era capitato in carriera.
Secondo arbitro P.J. Carlesimo, il vice di Daly, che per non sbagliare userà il fischietto come semplice “bite” da tenere tra i denti, senza concedersi il piacere di sibilare un filo d’aria al suo interno per tutta la partita.
Ad osservare troviamo un compiaciuto coach Daly, assieme a Stockton e Drexler acciaccati.
Tutti i partecipanti, nessuno escluso, vi dirà che quella è stata la più bella partita a cui abbiano mai partecipato. Equilibrata, spettacolare, spietata.
Da una parte Jordan, Pippen, Ewing, Malone e Larry Bird.
Dall’altra Magic Johnson, Robinson, Barkley, Laettner e Mullin
Praticamente est contro ovest, con la sola eccezione di Malone, che Magic non vuole vedere neanche col binocolo. Si arriva punto su punto. A fare la differenza è la presa che il capitano ha sulla propria squadra.
Dal suo lato Jordan, sfrutta tutta la carica di rivalità che la sua squadra cova contro Johnson, da Malone fino ovviamente a Larry Bird che contro il 32 dei Lakers ha costruito una faida che ha contribuito a creare il mito dell’NBA.
Nell’altra squadra Magic non riesce invece a tenere a freno alcune esuberanze dei suoi, su tutti Barkley, che esagera nel provocare Jordan con il suo trash talk. Lo provoca a tal punto da scatenare la reazione di Air Mike, la peggiore possibile: quella sul campo. Jordan scioglie le briglie e spazza dal campo il team di Magic, prendendosi la nazionale e soprattutto il comando dell’intera lega.
La medaglia d’oro a Barcellona 92
Quello che accade dopo quella partita ha connotazioni tecniche decisamente più flebili.
Tale e tanta è la differenza tra il Dream Team e le altre formazioni, che le gare sembrano una serie di esibizioni. I primi e più emozionati tifosi Usa sono proprio gli avversari. Si assistono a scene al limite del ridicolo, con giocatori avversari che si fanno foto con i loro idoli prima delle partite, si fanno autografare scarpe e canotte. Insomma una vera e propria competizione non c’è e non può esserci contro quella squadra.
Jordan e compagni, perché dopo lo showdown di Monte Carlo si può dire così, vincono annientando tutto quello che si presenta dinnanzi a loro. sono forti e sanno di esserlo.
Sono anche arroganti, come Barkley che prima della gara contro l’Angola afferma con supponenza di non conoscere la nazionale avversaria ma che secondo lui (testuali parole) “l’Angola è nei guai“. Dopo questa strafottenza ci si potrebbe aspettare la reazione, magari scomposta dell’avversario. Macchè. Il primo tempo finisce 64-16, la partita 116-48. Per chiarire subito chi comanda, Barkely rifila una gomitata mortifera al primo angolano che prova ad andare a rimbalzo.
Diamo qualche numero, solo per amor di cronaca e per dare consistenza ad un dominio difficilmente spiegabile con le parole: scarto medio 43.8 punti, punteggio medio di 117.3.
La gara più “equilibrata” è stata la finale contro la Croazia di Kukoc e Petrovic, unici due giocatori della rassegna a poter guardare negli occhi i mostri sacri americani. Finisce con un mortificante +32 per la formazione a stelle e strisce (117-85).
Dal punto di vista meramente sportivo, parlando di competizione pura, una delle peggiori pagine della storia olimpica. Ma tutta l’epica di quella squadra ha contribuito a crearne il mito, affievolendo la mancanza di contenuti tecnici di quel torneo.
A quasi 30 anni di distanza, si può tranquillamente affermare che quella è stata la squadra di basket più forte di tutti i tempi, e difficilmente si potrà assemblare tanto talento attorno ad una palla a spicchi.
Per molti degli avversari incontrati, poter anche solo toccare con mano quei miti era cosa folle. Figurarsi poterci fare due tiri a canestro. Era proprio un sogno, fatto ad occhi aperti, in cui si è inserita una squadra, che con le proprie tute “bandiera” a stelle e strisce ha fuso per sempre i concetti di sogno e di squadra in unica parola: Dreamteam.