Sono passati più di 30 anni dalla morte di Drazen Petrovic, uno dei più grandi talenti visti su un campo da basket. Era il 7 giugno 1993 quando, in un incidente stradale, perse la vita a 28 anni, lasciando un gran vuoto in tutto il mondo del basket, che lo descriveva e viveva come uno dei più forti di sempre: vincitore di 3 medaglie olimpiche, 3 ai Mondiali, 2 agli Europei con la nazionale jugoslava, aggiunse coi club anche un campionato jugoslavo, 2 Coppe delle Coppe e 2 Coppe Campioni, oltre a numerosi riconoscimenti e titoli individuali.
Tecnica ed eleganza
Queste le doti di Drazen che saltavano principalmente agli occhi, unite a indiscusse abilità con e senza il pallone tra le mani, che lo portarono a giocare 4 stagioni in NBA, un mondo che ai tempi aveva le porte spesso chiuse agli Europei, se non proprio per i fenomeni. E lui lo era!
Glaciale come il freddo di Sebenico – sua città natale in Croazia – d’inverno, era in grado di segnare 60 e più punti in una partita sbagliando solo un tiro (accadde veramente in un Real Madrid-Caserta, anno della vittoria in Coppa delle Coppe con i blancos). Leggero fisicamente, con qualche problema a schiena e anche in gioventù per via di un’eccessiva magrezza, pagò nel suo primo anno in NBA la differenza di stazza con i pari ruolo americani, ma col passare del tempo, soprattutto dopo una grande prova contro il Dream Team del 1992 a Barcellona – in cui segnò 11 punti consecutivi – trovò il suo posto nella lega statunitense, consacrandosi tra i migliori giocatori della lega, sfiorando la convocazione all’All Star Game venendo inserito nel terzo quintetto della stagione; primo europeo a riuscirci e secondo non statunitense di sempre dopo il nigeriano Hakeem Olajuwon.
Ciò che, oltre alle qualità tecniche e l’intelligenza cestistica, colpiva di Drazen era la personalità, quella che dopo quell’ultimo ottimo anno ai Nets gli fece criticare la gestione societaria, facendolo esporre nel dire di volersi trasferire nel campionato greco. Quella stessa personalità che lo portava, ancora ragazzo, ad alzarsi alle 5 del mattino per compiere sedute da 500 tiri prima di andare a scuola, grazie alla copia delle chiavi di una palestra dove poter andare ad allenarsi, da solo, come gli piaceva stare, in un isolamento sacro che fin da piccolo faceva intuire un talento fuori dal comune e un’ossessione che è dei più grandi: da Jordan a Kobe. Peccato che non ci furono altre stagioni dopo quella del 92-93 ai Nets, perché quell’estate Petrovic morì durante un viaggio in macchina con la fidanzata, mentre era diretto a Monaco di Baviera.
La sua grande forza fu anche quella di riuscire a essere protagonista in patria, nel Sibenik e nel Cibona Zagabria, così come al Real Madrid, nell’unica stagione prima del passaggio oltreoceano, che lo vide giocare due annate con la maglia dei Portland Trail Blazers e due con quella dei New Jersey Nets, raccogliendo paradossalmente meno di quello che la sua classe avrebbe meritato.
Cosa sarebbe potuto essere
I numeri, spesso freddi, aiutano nel basket a parlare di un giocatore, e così lo fanno per Petrovic, che ancora oggi ha la terza miglior percentuale di sempre al tiro da tre punti nella storia dell’NBA: il 43.74%, una macchina.
Per aggiungerne altri, ve li elenchiamo: al Cibona viaggiava a oltre 43 punti di media, con il Real Madrid a 28.7 punti di media a partita, nel primo anno intero ai Nets a 20.6 e nell’ultima stagione a 22.3, con 3.5 assist e 2.7 rimbalzi. Se sei un bianco di 196 centimetri, non troppo pesante, col fisico gracile, devi essere davvero una superstar per poter stare a quei livelli con queste cifre, ciò che successivamente sono stati Nowitzki o Doncic, giusto per citare due europei che hanno fatto e fanno faville in NBA.
Lui lo era, e in Europa nessuna lo poteva fermare: forse il primo caso di playmaker di quasi 2 metri, con un controllo palla incredibile e la velocità di un giocatore di 20 centimetri in meno, che segnava da fuori come nessuno quando ancora non c’era la linea del tiro da tre. Un antesignano di Steph Curry, che stava già cambiando il gioco. Secondo Reggie Miller, uno dei più grandi tiratori di sempre: “Il miglior tiratore che abbia mai visto”.
Tanti si sono chiesti quanto ancora avrebbe potuto incidere, considerando che probabilmente doveva ancora entrare nell’età della definitiva maturazione, che arriva intorno ai 30 anni, ma per certo possiamo dire che la sua leggenda non se n’è andata con lui, ma è rimasta e continuerà a far parlare di sé, del Mozart della pallacanestro.