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Se non ci fosse dovrebbero inventarlo. Dennis Rodman, classe 1961, è stato un giocatore Nba clamorosamente efficace, vincitore di cinque titoli, oltre a diversi premi individuali. Un atleta capace di chiudere una partita con 0 punti e 28 rimbalzi, un’ala in grado di difendere su lunghi ed esterni, abile ad arpionare qualsiasi pallone capitasse nelle sue vicinanze. Eppure, viene ricordato soprattutto per il suo modo, alquanto stravagante e singolare, di vivere la propria vita.

Si parte per un lungo viaggio

Il 13 maggio 1961 nacque una leggenda sotto diversi punti di vista. Dennis Keith Rodman venne dato alla luce a Trenton, New Jersey, ma crebbe a Dallas, insieme alla madre e alle sorelle in un quartiere povero – e senza il padre, allontanatosi dalla famiglia. La scuola non faceva decisamente per lui (la mamma lo cacciò diverse volte di casa per la sua cattiva condotta) e a questo punto fu la pallacanestro a salvarlo dalla strada. Prima si diresse al Cooke County College, dove giocò però solo 16 partite, per poi raggiungere la Southeastern Oklahoma State University, in Oklahoma. Sono anni in cui Rodman mostrava grandi capacità sul parquet, lui che fu reclutato dall’assistente allenatore di Oklahoma State, Lonn Reisman: una scelta che pagò ottimi dividendi, dato che Dennis mostrò il suo grande talento, soprattutto di rimbalzista (25.7 punti e 15.7 rimbalzi di media dal 1983 al 1986), nominato anche per tre volte NAIA (National Association of Intercollegiate Athletics) All-American.

Nella storia

Anche i Pistons si accorsero di lui e chiamarono “The Worm” (soprannome affibbiatogli così per le movenze ondulatorie quando giocava a flipper da ragazzo) al secondo round del Draft 1986, con la ventisettesima pick assoluta. Quella Detroit di talento ne aveva da vendere, basti pensare a Isiah Thomas, Joe Dumars, John Salley, Rick Mahorn e Bill Laimbeer. Era ufficialmente nata la versione finale dei cosiddetti “Bad Boys”, un gruppo capace di fermare qualsiasi avversario proiettato a canestro (incluso Michael Jordan) tramite maniere non propriamente gentili, per usare un eufemismo. In questo ambito, Rodman era perfetto, avendo il compito di dare tutto ciò che aveva per il bene della squadra, specialmente a livello difensivo e a rimbalzo.

I suoi numeri aumentarono progressivamente di anno in anno, passando dai 6.5 punti e 4.3 rimbalzi di media nella prima stagione (1986-87) ai 9.8 punti e 18.7 rimbalzi dell’annata 1991-92, prima di un leggerissimo calo nell’ultima in casacca Pistons (7.5 punti e 18.3 rimbalzi nel 1993). Il team guidato in panchina da coach Daly agguantò nel 1987 le Eastern Conference Finals, sconfitto dai Celtics per 4-3, e poi le Finals nel 1988, sconfitto dai Lakers per 4-3, due battute d’arresto che servirono da insegnamento. A tal punto che, nel 1989 e nel 1990, i Bad Boys vinsero due anelli, un back to back storico, i primi due ovviamente anche per Dennis Rodman, pedina essenziale nello scacchiere del sopracitato Chuck Daly, il quale rappresentò per Dennis una sorta di figura paterna.

E fu proprio quando finì il ciclo di Daly a Detroit che la vita di Rodman subì uno scossone. Siamo nel 1992 ed è in quel momento che iniziò un periodo difficile, culminato, nel febbraio del 1993, in un pensiero piuttosto negativo, quello del suicidio. Per fortuna, quell’idea rimase tale: l’ex ala dei Bulls guidò fino all’Arena di Auburn Hills ed ebbe un “incontro” con il proprio fucile, ma alla fine scelse di non utilizzarlo. Decise invece di cambiare il proprio stile, vestendosi in modo stravagante, senza dimenticare piercing, orecchini, tatuaggi e capelli colorati. Questa nuova versione di Rodman sbarcò a San Antonio nel 1993 e, per la franchigia texana, non fu semplice controllarlo tanto in campo quanto fuori.

I due tormentati anni a San Antonio

Oltre alle nuove acconciature e alla relazione con la celebre Madonna (di cui parleremo più avanti), la storia ci dice che Rodman indossò la canotta degli Spurs per due anni, dal 1993 al 1995, per un totale di 148 partite di Regular Season, in cui mantenne la doppia cifra di media in quanto a rimbalzi catturati. Altre cifre però ci raccontano una parte decisamente più negativa del periodo in quel di San Antonio: 18 gare in totale di sospensione e un’infinità di falli tecnici, insomma non aveva proprio intenzione di seguire le regole. Nel frattempo, gli Spurs caddero al primo round dei playoff 1994 e, un anno dopo, persero contro i Rockets alle Western Conference Finals, dove lo stesso Dennis verrà messo in panchina nella decisiva gara 5. Rodman era ai ferri corti con staff e franchigia e l’unica soluzione sarebbe stata quella di cambiare nuovamente aria.

A Chicago per l’anello

Nonostante i problemi di disciplina, i Bulls puntarono forte sul talento dell’ala nativa di Trenton. O meglio, non tutti erano propriamente d’accordo sull’idea di aggiungere Dennis al roster, ma Chicago scelse di effettuare due colloqui con lui e il suo agente. Il primo si svolse nella casa dell’Executive dei Bulls Jerry Krause. “Quando arrivai – spiega coach Phil Jackson nel suo libro “Eleven Rings” – Dennis era sdraiato sul divano con gli occhiali da sole e un berretto da ragazzino dei giornali (…) Non gli interessava altro che parlare di quanto sarebbe stato pagato. Gli dissi che i Bulls pagavano in base a quanto si produceva, non sulle promesse”. E poi il secondo incontro, nella stanza tribale del Berto Center. “Dennis fu più disponibile e gli chiesi cos’è che a San Antonio non aveva funzionato. Mi aveva raccontato che tutto era cominciato quando aveva invitato Madonna nello spogliatoio dopo la partita. La follia mediatica che ne seguì aveva fatto infuriare i dirigenti”.  

Franchigia e giocatore si accordarono nell’estate 1995 (Will Purdue agli Spurs), il resto, come si suol dire, è storia. I Bulls chiusero la stagione 1995-96 a quota 72 vittorie e sole 10 sconfitte, battendo in finale i SuperSonics (4-2) e agguantando il quarto anello degli anni Novanta. Nel 1997 e nel 1998 i successi in regular season saranno rispettivamente 69 e 62, con Chicago che vincerà il secondo three-peat, superando in entrambi i casi i Jazz alle Finals.

In tutto questo, Rodman aveva ottenuto il quinto anello della sua tanto straordinaria quanto particolare carriera. Più nello specifico, aveva trovato un’altra figura paterna, ovvero Phil Jackson. Dennis venne accolto, venne ascoltato e, in un certo senso, anche capito. Nella serie “The Last Dance” trasmessa da Netflix, si spiega come a Rodman siano state persino concesse 48 ore di “buona uscita” a Las Vegas durante la stagione regolare: l’ex ala dei Pistons aveva bisogno di lasciarsi andare, anche se poi, dai racconti, sembra che sia stato lo stesso Jordan ad andare a riprendere il proprio compagno di squadra. Poco importa, dato che è stato lo stesso MJ a raccontare la grande importanza che ebbe Rodman nello spogliatoio di quei Bulls. Insomma, da uomo odiato (giocatore che fece parte dei Bad Boys di Detroit) a uomo in un certo senso amato, capace di portare il team alla vittoria per tre anni di fila grazie alle sue capacità di rimbalzista (e non solo).

Cala il sipario

Nell’estate 1998, subito dopo il secondo three-peat di Chicago, Jerry Krause smantellò la squadra e anche Rodman fu ceduto. Il suo percorso lo portò ai Lakers per una stagione, quella 1998-99, un anno prima che a Los Angeles approdasse il suo ex allenatore Phil Jackson (che con i gialloviola vincerà un altro three-peat). Rodman giocò al fianco di Kobe Bryant, Shaquille O’Neal, Rick Fox e Robert Horry, ma, pur disponendo di un talento sconfinato, la squadra ebbe problemi di alchimia ai playoff e non a caso verrà spazzata via dagli Spurs di Duncan e Robinson al secondo turno. Per l’ala ex Bulls, non sceso in campo nei playoff sopracitati, era venuto il momento di un nuovo spostamento, l’ultimo della sua carriera: si diresse a Dallas, dove però disputò solo 12 partite (2.8 punti e 14.3 rimbalzi di media), appendendo di fatto le scarpe al chiodo.  

Il lato extra cestistico

Nella sua carriera Dennis Rodman è stato nominato per due volte miglior difensore dell’Nba e per sette volte miglior rimbalzista, ma c’è molto di più. Conosciuto anche per i suoi gossip, ha avuto innanzitutto una relazione con la celebre cantante Madonna. Passeggera, sia chiaro, ma nel 1994 i due stavano insieme, una relazione anche questa sui generis, a tal punto che, pare, Madonna gli offrì 20 milioni di dollari per metterla incinta. E, oltre a sposarsi e divorziare nel 1992 con Annie Bakes (dalla quale ebbe anche una figlia), Rodman convolerà a nozze anche con la modella Carmen Electra nel 1998: anche in questo caso, divorziò qualche giorno dopo, spiegando che, al momento del matrimonio, non era in grado di intendere e di volere – in poche parole era ubriaco.

Altrettanto nota è anche la sua amicizia con il dittatore nord-coreano Kim Jong-Un, appassionato di pallacanestro Nba e che invitò lo stesso Rodman in Corea del Nord per passare qualche giorno con lui (nel 2013). Successivamente si propose anche come tramite per rendere più pacifici i rapporti tra Corea del Nord e Stati Uniti. Per altro, è stato anche sostenitore della campagna presidenziale (2016) di Donald Trump, definendosi anche suo amico di lunga data.

E poi il wrestling. Tra le sue apparizioni, la più celebre fu quella del 1998, quando si esibì a “Bash at the Beach” in WCW al fianco di Hulk Hogan in un match che prevedeva, come avversario, Karl Malone, quest’ultimo affiancato da Dallas Page e nemico di Rodman anche in Nba. Ad onor di cronaca, un membro dell’NWO si intrufolò sul ring e permise a Hogan e Rodman di vincere l’incontro, chiaramente in una maniera non propriamente corretta.

L’ala nativa di Trenton ebbe anche problemi di alcool, ma tentò di disintossicarsi tra il 2013 e il 2014. Nel 2011 invece venne inserito nella Basketball Hall of Fame e, ad accoglierlo sul palco, ci fu una delle sue poche guide incontrate lungo il suo percorso: Phil Jackson. Parecchio emozionato, Dennis si è espresso con parole toccanti. “Avrei potuto essere in qualsiasi parte del mondo. Avrei potuto essere morto. Avrei potuto essere uno spacciatore. Avrei potuto essere un senzatetto, ero un senzatetto. Molti di voi qui, molti di voi nella Hall of Fame sanno di cosa sto parlando, vivendo nei Projects. Vuoi solo uscire dai Projects. E l’ho fatto, ma ci sono voluti molto duro lavoro e molti ostacoli lungo la strada”. L’unico suo rimpianto? Avrebbe voluto essere un padre migliore. Con grande sincerità si congedò dalla folla e, più in generale, dal mondo Nba. Dennis Rodman, genio e sregolatezza.