Bollato come “perdente” per non aver mai vinto un anello, “Sir” Charles Barkley è stato un mix di talento, intelligenza e forza sul parquet, un’ala forte di 198 centimetri per 114 chili capace di mangiarsi tutto il campo e schiacciare dopo un coast to coast. Mvp della Regular Season 1992-93, è stato inserito sia nella Basketball Hall of Fame sia nella lista dei migliori 75 giocatori di sempre a pieno diritto, pur non avendo mai raggiunto la vetta dell’Nba. Per altro, ha fatto parte della squadra più forte nella storia della pallacanestro, il Dream Team 1992, di cui è risultato assoluto protagonista.
L’incontro con Doctor J
Barkley, nato il 28 febbraio 1963 a Leeds (Alabama), fu un giocatore solido al college, capace di mettere insieme 14.6 punti e 9.6 rimbalzi a partita nei suoi tre anni passati ad Auburn, portando l’università nel tabellone principale della March Madness. E ciò che convinse i Philadelphia 76ers a puntare su di lui fu soprattutto la quantità di palloni che riusciva a catturare sotto i tabelloni, piuttosto che il gran numero di canestri che realizzava nel corso di una partita. E così, in un Draft 1984 pieno di talenti, Charles venne scelto con la pick numero 5, proclamato nuovo giocatore dei 76ers dal “baffuto” Commissioner David Stern.
Il primo contratto Nba permise a Sir Charles di prendersi cura della sua famiglia, un valore che per lui contava più di ogni altra cosa. Prima del training camp con i 76ers era però nervoso. Il motivo aveva un nome e un cognome, oltre che un soprannome: Julius “Doctor J” Erving, suo nuovo compagno di squadra. Barkley era sbarcato a Phila in un team che poteva annoverare tra le proprie fila vere leggende della pallacanestro americana, una delle quali era certamente Doctor J, oltre a Moses Malone e Maurice Cheeks, tre stelle che agguantarono il titolo nel 1983. Charles non sapeva come avrebbe dovuto chiamare il suo nuovo compagno di squadra, come avrebbe dovuto rapportarsi con una leggenda del suo calibro. La risposta venne da sé, dato che, al primo incontro sul parquet tra i due, Julius si presentò con un rapido e semplice “Ehi, sono Doc”, dimostrando di essere uno dei migliori anche dal punto di vista umano.
Sir Charles si guadagnò la chiamata nel Rookie All-Team al termine della prima stagione nella lega, grazie alle cifre che lo avevano contraddistinto anche ad Auburn. 14 punti di media e 8.6 rimbalzi, ma, per sua sfortuna, l’anello non arrivò. E nei suoi 8 anni a Philadelphia, Barkley aumentò progressivamente i suoi numeri, raggiungendo stabilmente la doppia-doppia di media per punti e rimbalzi e andando oltre i 20 punti ad allacciata di scarpa (il massimo nella RS 1987-88 con 28.3). I 76ers però non raggiunsero mai le Finals, scontrandosi con Celtics e Bucks dal 1985 al 1987 e poi, senza Doctor J e Moses Malone (il primo ritiratosi), verranno eliminati da Knicks e Bulls dal 1989 al 1991.
L’Nba degli anni Novanta
Il 1990 e il 1991, per altro, furono due anni ricordati anche per qualche episodio negativo riferito a Barkley, che si ritrovò troppo spesso coinvolto in litigi con gli avversari. Possiamo parlare ad esempio dello screzio in campo con Patrick Ewing in una partita tra Knicks e 76ers oppure della rissa, ben più famosa, durante una sfida tra 76ers e Pistons. In quest’ultima occasione, il suo compagno di squadra Mahorn segnò il canestro e fallo della staffa, provocando il suo diretto avversario. Laimbeer, centro di Detroit e giocatore decisamente poco simpatico (oltre che incline ad utilizzare la forza bruta), spinse via Mahorn, difeso a sua volta da Barkley. Ed ecco che, in un amen, Laimbeer e Sir Charles si sferrarono alcuni colpi, il primo assestato da Barkley: attorno ai due si creò la baraonda e fioccarono, inevitabilmente, le espulsioni – anche perché all’epoca l’Nba stava cercando di evitare il più possibile questo tipo di eventi.
Il fatto che però cambiò il modo di pensare di Barkley fu lo sputo che l’ala di Phila rifilò, accidentalmente, ad una bambina del pubblico nella sfida contro New Jersey (il bersaglio era un altro, ovvero un uomo reo di aver rifilato, oltre che insulti gratuiti, anche razzisti). In maniera coscienziosa, si pentì delle sue azioni (centrò la bimba di otto anni in pieno) e ragionò sull’accaduto: da quel momento Barkley iniziò a pensare solo alla pallacanestro giocata, ammettendo, prima di tutto a sé stesso, le proprie colpe. “Quella notte ero seduto nella stanza d’albergo a piangere, ho detto: ‘Amico, sei uno stronzo. Non giocare a basket per cercare di attaccare la gente”, spiegò qualche tempo fa al podcast (Club Shay Shay) di Shannon Sharpe, vincitore per tre volte del Superbowl. Da evidenziare che farà amicizia con quella bambina sopracitata.
Un’ultima eccezione? La storica rissa con Shaquille O’Neal durante una sfida tra Lakers e Rockets del 1999. A gioco fermo, Shaq spinse leggermente Barkley, il quale reagì tirando il pallone addosso al centro dei Lakers, ben più alto e grosso di lui. A dire la verità non successe nulla di particolare, con O’Neal che lo trascinò a terra ed i due vennero divisi dai compagni di squadra. L’ironia della sorte fu che, diversi anni più tardi, si ritrovarono ai microfoni della TNT per condurre il programma “Inside the Nba”, lavoro che continuano a svolgere anche oggi.
Il trasferimento in Arizona
Non raggiunta nemmeno la post-season nel 1992, Philadelphia scelse di scambiare Barkley: ai 76ers andarono Jeff Hornacek, Tim Perry and Andrew Lang, mentre Sir Charles finì ai Suns, nel cui roster figuravano già i nomi di Danny Ainge e Cedric Ceballos tra gli altri.
E al primo colpo, Phoenix raggiunse le tanto agognate Finals, sognate da Barkley in più occasioni. Con un impressionante record di 62 vittorie e sole 20 sconfitte, i Suns si sbarazzarono di Lakers, Spurs e Supersonics, prima del grande ballo contro i Chicago Bulls. Sir Charles ottenne il titolo di Mvp della stagione regolare, chiudendo a quota 25.6 punti e 12.2 rimbalzi di media, un dominio incontrastato. Sappiamo benissimo, però, che quei Bulls risultarono imbattibili per chiunque in quegli anni e a loro si dovettero inchinare anche i Suns: Barkley mise a referto 27.3 punti e 13 rimbalzi ad allacciata di scarpa in quelle Finals, ma Michael Jordan “si travestì da Dio”, per usare una celebre espressione di Larry Bird, e finì la serie, vinta da Chicago per 4-2, a quota 41 punti di media.
Phoenix, guidata in panchina da coach Westphal, nei successivi due anni non riuscirà a superare un ostacolo chiamato Houston Rockets, trascinati dal fenomenale Hakeem Olajuwon – in entrambi i casi vittoria di Houston per 4-3 al secondo turno. Per i Suns furono due sconfitte brucianti e che ebbero delle conseguenze.
Ultimo tentativo
La voglia di Barkley di ottenere un anello era tanta e questo desiderio coincise con quello dei Rockets, desiderosi di portare a Houston un altro titolo. Altro giro e altro scambio: ai Suns finirono Robert Horry, Sam Cassell, Chucky Brown e Mark Bryant, mentre Charles andò ad unirsi a Clyde Drexler e al già citato Olajuwon.
A giustiziare i Rockets ci pensarono i Jazz di Stockton e Malone: l’occasione più ghiotta giunse ai playoff 1997, ma, alle Western Conference Finals, Utah mise le mani sulla serie e volò alle Finals. Nei due anni successivi, i Suns non superarono mai il primo turno, mentre nella stagione 1999-00 Barkley si infortunò gravemente (tendine del quadricipite), dicendo addio prematuramente ad eventuali sogni di gloria. La fine si materializzò, con Sir Charles che concluse la sua carriera proprio nel 2000, senza aver mai conquistato un titolo.
Dream Team
Pur senza aver mai raggiunto la vetta dell’Nba, il nativo di Leeds fece parte della miglior squadra della storia della pallacanestro, il Dream Team 1992, quello originale. In un gruppo formato da Michael Jordan, Magic Johnson, Larry Bird (tanto per citarne tre), Barkley risultò il miglior realizzatore di quella splendida spedizione, un segno del suo incredibile talento. Verrà ricordato anche per una frase che passò alla storia, prima della partita contro l’Angola: “Non so un accidenti dell’Angola, però so che è nei guai”. E aveva ragione, dato che il ciclone Team Usa si abbatté sugli avversari, sconfitti con il punteggio di 116-48. E pensare che l’episodio di New Jersey 1991 (lo sputo di cui sopra) avrebbe potuto escluderlo dalla lista dei 12, invece Barkley vinse quell’oro e anche quello di Atlanta 1996, agguantando due medaglie da mettere in bacheca.