Un gioco di parole per raccontare la storia di uno dei più grandi cestisti della storia del nostro basket: Andrea Bargnani. Numero 1, perché quella è stata la posizione nella quale è stato scelto al draft del 2006 dai Toronto Raptors. Numero 7, perché è stato il numero che ha sempre (o quasi) portato sulle spalle… quando disponibile (perché quello con cui giocava lo zio, uomo che lo ha fatto avvicinare alla pallacanestro in tenera età).
Gli inizi
Fu proprio lo zio, Massimo Balducci (cestista prima della Perugina Jeans e poi della Stella Azzurra Roma), a spingere Andrea a muovere i primi passi nel basket. Così accadde intorno ai 6 anni a Trezzano Rosa, piccolo paese in provincia di Milano dove la famiglia si era trasferita. Agli inizi Andrea era un giocatore normale, spesso scartato dalle selezioni provinciali e regionali, la sua crescita arrivò ben dopo. Prima del ritorno nella capitale, dove era nato, ci fu il passaggio da Treviglio, società che già allora nutriva di buon prestigio per il livello del proprio settore giovanile. Successivamente il ritorno a Roma nel 1997, giocando nel SAM Basket Roma allenato da Roberto Castellano, ex capitano del BancoRoma e poi la Stella Azzurra in B2, dove cominciò a intravedersi quello che sarebbe poi diventato il “Mago”.
La svolta, grazie a Ettore Messina
La sua carriera svoltò nel 2003, con l’approdo alla Benetton Treviso, allenata allora da Ettore Messina. Fu proprio lui, a un certo punto della sua crescita, a spostarlo dal ruolo di guarda a quello di ala grande, cambiando completamente la prospettiva del Bargnani giocatore. Se infatti da piccolo sfruttava la sua altezza giocando contro avversari nettamente più bassi di lui, col tempo i fisici degli altri diventavano sempre più simili al suo, ma la velocità in campo lo vedeva perdere quel suo vantaggio. Ecco allora l’intuizione di Messina, che mettendolo a giocare contro giocatori decisamente più lenti, diede ad Andrea un vantaggio fisico e atletico spaventoso, che lo portò a diventare il miglior Under 22 dell’Eurolega nel 2006, la stagione della sua consacrazione definitiva, dopo essere stato eletto nello stesso anno anche miglior giovane del campionato italiano. E così, dopo aver vinto quel tricolore e aver messo in bacheca due Coppa Italia, a pochi giorni dal successo tricolore volò a New York per il draft, dove sarebbe stato poi scelto con la numero 1 dai Toronto Raptors.
L’NBA, un sogno diventato realtà
Come lui stesso ha dichiarato in una recente intervista fatta da Gianluca Gazzoli a “Passa dal BSMT“, la più grande emozione fu quella di poter indossare il logo della NBA tutti i giorni, per andare ad allenamenti e partite. Un’emozione che in campo volle dire sette stagioni con la canotta dei Toronto Raptors, due con quella dei New York Knicks e una con quella dei Brooklyn Nets, realizzando oltre 7.000 punti, con il prestigio di essere diventato oltre che il primo italiano, anche il primo europeo ad essere selezionato come numero uno assoluto, il secondo (dopo Yao Ming) non formatosi cestisticamente negli Stati Uniti e il sesto non americano.
Le sue stagioni ai Raptors furono un crescendo: all’inizio giocava poco, non veniva visto molto dall’allenatore e lui soffriva, in panchina, sapendo di poter dire la sua e volendo dimostrare che quella scelta fatta dalla franchigia aveva avuto senso. Ma nonostante questo chiuse la stagione al secondo posto nella classifica di matricola dell’anno, dietro Brandon Roy e si guadagnò il pass per giocare la partita dei rookie all’All Star Game di Las Vegas nel 2007.
Nei due anni successivi la storia si ripeté, in modo un po’ altalenante ma con alcune importanti conferme: convocato ancora all’All Star Game, questa volta da sophomore, diventò testimonial per la copertina della versione italiana del videogioco NBA Live 08 (anche nello 09) e mise insieme una serie di record personali.
Nella stagione 10-11 i suoi gradi aumentarono ancora: la partenza di Bosh lo portò a diventare capitano e leader offensivo della squadra, andando a referto con una media di 20 punti a partita, con un career high di 41 al Madison Square Garden, ma una serie di infortuni condizionarono la sua annata, che finì con discreto anticipo. Accadde la stessa cosa l’anno successivo, con un finale amaro dopo alcuni problemi con l’ambiente di Toronto, che iniziò a fischiarlo in diverse occasioni, fino alla chiusura dei rapporti e all’addio.
New York e Brooklyn, gli ultimi scampoli del Bargnani “americano”
Nell’estate 2013 passò ai New York Knicks, dove prese il numero 77, perché il 7 era occupato dalla super star Carmelo Anthony. Giocò discretamente fino a gennaio, poi un nuovo infortunio lo costrinse a saltare la fine di quella e l’inizio della stagione successiva, col rientro soltanto a marzo 2015, con i Knicks protagonisti di una regular season molto negativa.
L’estate successiva passò a Brooklyn, poco distante, rifiutando un’offerta dei Sacramento Kings, vestendo questa volta il numero 9. Esordì mettendo a segno 17 punti in 22 minuti, ma passò solo qualche mese e, a febbraio, rescisse il contratto, diventando free agent e criticando in seguito la società, accusandola di non avergli concessi i minuti promessi.
Ritorno in Europa e ritiro
Gli ultimi anni di carriera del “Mago” non furono memorabili, anzi, hanno forse lasciato di lui un ricordo peggiore di quello che tutti noi avremmo dovuto conservare. Nel 2016 venne ingaggiato dal Baskonia con un biennale, ma dopo l’eliminazione dall’Eurolega (a fine aprile) e in seguito all’ennesimo problema fisico, rescisse il contratto consensualmente e, dopo alcuni mesi di stop e silenzio, a gennaio 2018 attraverso un post sul proprio profilo Facebook, comunicò la scelta di ritirarsi.
Una carriera finita “male” rispetto a come era iniziata, che l’ha visto preso spesso di mira per apparente indolenza quando probabilmente era solo il suo carattere, schivo e silenzioso, poco incline alle reazioni veementi, a farlo sembrare poco sul pezzo; ma come lui stesso ha dichiarato: “Chi non ha voglia si ferma in C1, non va in Serie A, figuriamoci in NBA”.
Una storia simile a quella vissuta con la Nazionale, dove il Mago ha rappresentato, insieme a Gallinari e Belinelli (i 3 giocatori azzurri più rappresentativi in NBA di quest’epoca) un eterno “what if”. Una “generazione di fenomeni” che ha raccolto molto meno di quello che ci si sarebbe aspettati, e lui stesso ha affermato che “eravamo troppo giovani, con l’esperienza di oggi le cose forse sarebbero andate in un altro modo. Ognuno pensava al proprio orticello, non siamo stati bravi a fare squadra”. Il sunto di una decade di sogni – di tifosi e giocatori – legati ai nostri più vincenti esponenti al di là dell’oceano, dove è rimasto solo il Gallo, che nonostante la serie infinita di infortuni continua ad avere il suo spazio nella NBA.
Per il Mago invece la vita è cambiata: oggi si gode quanto ha guadagnato in carriera, sottolineando di non aver mai formalmente annunciato il ritiro (anche se quel post su Facebook fu molto indicativo e, oggettivamente, definitivo, visto l’esito degli eventi), e ricordando nella varie interviste ciò che fu e ciò che la gente si aspettava potesse essere. Quel che ricordiamo noi è un talento incredibile, “scoperto” da Messina nel momento in cui gli cambiò il ruolo, che ci renderà per sempre fieri di aver avuto un atleta azzurro selezionato con la prima scelta assoluta a un Draft NBA, una cosa che forse non rivedremo mai più.