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Mercoledì 8 marzo 2017. Anche se la luna sembra nascondersi tra le nubi che sorvolano il Nou Camp, s’intravede un bagliore. Mancano pochi minuti alle 23, e mentre il mondo intorno vive e crepa, Barcellona e PSG si stanno rendendo protagoniste – la seconda, suo malgrado – di una delle partite più memorabili nella storia della Champions League.

Nonostante il 4-0 dei parigini al Parc des Princes dell’andata, il Barcellona, non si sa bene come, è riuscito a ristabilire la parità aggregativa nel punteggio, che ora – come un’antica legge mosaica – è scritto a caratteri cubitali sul maxischermo dello stadio: 5-1. C’è ancora, tuttavia, la regola del gol in trasferta.

La luna

Quello segnato da Cavani al 61’ sapeva, in effetti, di gol qualificazione. Ma Neymar ha un ultimo pallone tra i piedi. Alza lo sguardo, pennella di mancino al centro dell’area dove Sergi Roberto, in allungo, trafigge Trapp. È solo la prima, certamente più memorabile, maledizione del Paris Saint-Germain in Champions League. Eppure è anche l’inizio di qualcosa di grande.

L’estate successiva, quasi ad allontanare il dubbio – è un fatto! – che il pallone sia rotondo, e che quindi l’acquisto dei più forti giocatori altrui non necessariamente significhi raggiungere il traguardo, al-Khelaifi, patron del PSG, spende una cifra monstre per garantirsi le prestazioni sportive proprio di Neymar Jr., il boia del 2017. Il brasiliano, in effetti, riuscirà a portare il PSG ad un passo dalla gloria nella stagione 2019-20 (tre anni dopo), salvo piegarsi alla rete di Kingsley Coman e al conseguente trionfo del Bayern Monaco, in una finale giocata senza pubblico a causa della pandemia.

Il dito, non la luna

Ecco, allora, che andando a ritroso nella storia è anche facile – la facciamo facile, noialtri – capire quale fu l’errore di al-Khelaifi dopo quel dramma sportivo noto ai più come ottavo di ritorno di Champions League, stagione 2016/17. L’errore, dicevamo, fu quello di scegliere la stella più luminosa – perché Messi sta su un’altra galassia, e persino lui, comunque, verrà infine acquistato molti anni dopo – senza passare dall’artigiano del suo sommovimento, dal primo motore immobile, direbbe Aristotele, che move ‘l sole e l’altre stelle, direbbe invece Dante. Fuor di metafora, al-Khelaifi all’epoca doveva prendere Luis Enrique, che sedeva proprio sulla panchina del Barcellona.

A distanza di otto anni da quella partita, a Parigi sono cambiate molte cose, e non fatichiamo a credere che gran parte del merito sia proprio di Luis Enrique – a Parigi dallo scorso anno – e di al-Khelaifi, che ha finalmente avuto il coraggio, vuoi pure per la via impervia della costrizione, di cedere alcuni giganteschi, onerosissimi top player (Neymar, Messi, Mbappe) e di puntare sugli elementi più promettenti del proprio vivaio (come Zaire-Emery; qui un bel resoconto Transfermarkt relativo ai prodotti della primavera del PSG: ci sono alcuni nomi da urlo) e dei vivai altrui. Nomi magari non da copertina, ma di enorme intelligenza, per il presente e per il futuro.

Cosa c’è di nuovo al PSG

Certo, non a peso di piuma, come qualcuno ha implicitamente fatto passare. Il bilancio complessivo del mercato parigino, tra estate e inverno, è di -109 mln di €. Le cessioni sono state 24 per una cifra totale di 130.1 mln di €, gli acquisti 21, per un totale di 239.92 mln di €. Su questa cifra pesa senz’altro l’acquisto ianuarino di Kvicha Kvaratskhelia, ceduto dal Napoli per 70 mln di €. Gli altri acquisti del PSG sono stati Joao Neves per 59 mln, Doué per 50 mln, Pacho per 40 e Safonov per 20. Ciò che sorprende però è l’età di questi acquisti. Safonov è il più anziano (25 anni), segue Kvara (23), Pacho (22) e poi Neves e Doué, entrambi 19enni. En passant, notiamo come dei cinque sopracitati, tre siano titolari inamovibili e Doué, di fatto, sia un co-titolare.

Insomma, la musica è decisamente cambiata, almeno da un anno. Il PSG, se vuole vincere, deve farlo attraverso una programmazione. Questa programmazione passa per Luis Enrique, un allenatore fortemente difeso dalla società, anche nei momenti più difficili – lo scorso anno il PSG è uscito in semifinale, d’accordo, ma senza mai dare l’impressione di poter vincere, e l’avversario non era certo imbattibile (Borussia Dortmund). Il Paris in Francia domina da anni, salvo rarissime eccezioni. Ecco allora che il sogno dei tifosi – ma anche di al-Khelaifi – è la Champions League, una competizione nella quale non basta avere le figurine giuste, ma saperle disporre in campo dando loro una mentalità coerente e precisa di gioco.

Questo è senz’altro accaduto con Luis Enrique, che nel doppio confronto contro il favorito Liverpool ha dato prova di tutte queste caratteristiche. Il PSG, dopo aver dominato (e perso 0-1) l’andata, ha ripreso a martellare in uno stadio (Anfield) dove la sola ipotesi di poter fare la voce grossa è contraddittoria. Eppure, con umiltà, sacrificio e tanta qualità, il PSG ha prima portato la partita ai tempi supplementari – nei quali ha più volte sfiorato il gol – poi ha vinto ai rigori (1-4) grazie anche ad uno straordinario Gigio Donnarumma, autentico leader, insieme a Marquinhos, di questo gruppo di giovani dalle belle speranze. Un gruppo che ora, allora, risulta assai credibile per la vittoria finale. Non in virtù di fuoriclasse comprati a peso d’oro, ma di una mentalità che è specchio del proprio allenatore. Un uomo bravo nel suo mestiere, con una storia vera alle sue spalle, ma prima di tutto umile.