Dal ghetto di Chicago al “back to back” in Nba. La storia di Isiah parte da lontano, da una situazione di povertà, violenza e difficoltà nella vita quotidiana, ma, col duro lavoro e una buona sana leadership, Thomas riuscì a sbarcare nella National Basketball Association. Diventò il giocatore di riferimento dei Bad Boys negli anni Ottanta, una Detroit capace di dominare gli avversari dal punto di vista fisico (sono da esempio le Jordan Rules) e guadagnarsi due anelli Nba consecutivi. Nonostante polemiche e rapporti incrinati, “Zeke” si iscrisse meritatamente nel club dei 50 migliori atleti della storia dell’Nba, vincendo anche un titolo di Mvp delle Finals nel 1990.
L’inizio di una grande storia
Prima del 1981, Detroit non era di certo la franchigia più temibile dell’Nba. Anzi, a cavallo tra la stagione 1979-80 e quella 1980-81, i Pistons persero 127 delle 164 gare disputate. Nel 1981 però, un ragazzo di nome Isiah Thomas venne scelto con la pick numero 2 da Detroit, dietro solo a Mark Aguirre (suo grande amico), e la situazione cambiò radicalmente.
Nato il 30 aprile 1961, Thomas diventò in breve tempo il leader di una squadra composta anche da Bill Laimbeer e Vinnie Johnson. Dopo aver frequentato la Saint Joseph’s High School (1975-79), Isiah passò ad Indiana University, un team guidato in panchina dal leggendario coach Bobby Knight: è proprio nel 1981 che il playmaker nativo di Chicago divenne il braccio dentro di Knight e condusse gli Hoosiers, da MOP (Most Outstanding Player), alla conquista del titolo Ncaa (vittorie in semifinale contro LSU e in finale contro North Carolina), il terzo per il leggendario allenatore.
Iniziò così la storia di Thomas, passato poi, come anticipato, ai Pistons, con i quali non raggiunse i playoff nella prima stagione, nonostante le sue cifre (17 punti e 7.8 assist di media) gli valsero il primo quintetto All-Rookie dell’anno. Crebbero le sue medie realizzative, ma Detroit saltò la post-season anche nell’annata successiva, prima di un assaggio nel 1983-84, quando i ragazzi del nuovo capo allenatore Chuck Daly furono sconfitti da New York al primo turno.
L’ostacolo Boston
La strada intrapresa era indubbiamente quella giusta, anche perché il front office dei Pistons dimostrò di saperci fare. In quattro anni sbarcarono a Detroit Joe Dumars, Rick Mahorn, Chuck Nevitt, Dennis Rodman e John Salley, i quali si andarono ad unire ad un roster già di spessore e qualità. Nel tempo, quei Pistons verranno chiamati “Bad Boys”, un soprannome che fece capire a tutti che con loro non si sarebbe potuto scherzare.
Ai playoff 1985 e 1987 la banda di Chuck Daly si scontrò con i Celtics dei big three Bird, Parish e McHale. Nacquero due vere e proprie battaglie, al termine delle quali però Boston prevarrà: nel 1985 Bird e compagni eliminarono i Pistons in 6 gare, mentre nel 1987 si andò alla “bella” e Boston vinse per 114-117, tirando un sospiro di sollievo. Thomas, per altro, fu protagonista di un errore di valutazione nel quinto atto della serie 1987: in gara 5, con Detroit sopra di un punto, scelse di non chiamare timeout, ma sulla conseguente rimessa laterale Bird rubò il pallone e Dennis Johnson realizzò i due punti della vittoria biancoverde.
Isiah e il suo gruppo si avvicinarono a grandi passi a quello che era il loro obiettivo: sbarazzarsi una volta per tutte dei Celtics. Come spiegato, non fu semplice vincere la resistenza degli avversari, ma nel 1988, con l’aggiunta di Darryl Dawkins, i Pistons non fecero più sconti, ormai consapevoli dei propri mezzi. Mandati a casa i Washington Bullets e i Chicago Bulls di un Michael Jordan che negli anni a venire si sarebbe preso lo scettro, i Bad Boys vinsero finalmente la serie contro Boston, battendola per 4-2 e con Thomas grande protagonista (23 punti, 5.2 rimbalzi, 8.3 assist e 2.3 rubate a partite). Era tutto apparecchiato per la prima finale: Pistons contro Lakers, Isiah contro Magic.
La doppia finale
Detroit ebbe dei conti in sospeso sia con i Celtics sia con i Lakers sia con i Bulls, le tre franchigie che, nel loro roster, presentavano i tre migliori giocatori dell’epoca, ovvero Bird, Magic e Jordan. Thomas avrebbe voluto aggiungersi a quella lista e, a più riprese, dimostrò il suo talento sul parquet, per quanto non riuscì a fare presa al di fuori del rettangolo di gioco (ne parleremo nei successivi paragrafi).
Alle Finals 1988, Detroit sorprese i Lakers in gara 1, prendendosi il fattore campo. Uno shock dal quale i gialloviola si ripresero subito, vincendo le successive due partite, prima che i Pistons riportassero tutto in parità (2-2). E addirittura, gara 5 fu preda sempre dei ragazzi di coach Daly (94-104), a quel punto ad un passo da un anello storico. Nel sesto atto della serie Thomas giocò alla grandissima (14 punti in fila all’inizio del terzo periodo), ma si infortunò alla caviglia, ricadendo su quella di Michael Cooper. Fu un duro colpo, dato che Detroit, pur con Isiah che realizzò nel solo terzo quarto ben 25 punti, subì una sconfitta amarissima al termine di un finale di match punto a punto, in cui i tiri liberi di Kareem Abdul-Jabbar risultarono decisivi. Un duro colpo, anche perché il playmaker nativo di Chicago riuscirà a giocare sostanzialmente solo nel primo tempo della decisiva gara 7, con i Lakers che agguantarono in volata l’ennesimo titolo della propria storia.
I Bad Boys però non persero tempo e ritornarono in finale già nel 1989. E indovinate contro chi? I Lakers di Magic, naturalmente. Una rivincita che passò alla storia per il “cappotto” che i Pistons riuscirono a rifilare agli avversari: un 4-0 nella serie che non ammise repliche e che consentì a Thomas di vincere il tanto agognato anello e a Dumars di aggiudicarsi il premio di Mvp delle Finals. Come nella stagione passata, fu un infortunio il punto di svolta: in questa seconda occasione capitò a Magic Johnson, un problema al bicipite femorale che lo fermò nel terzo atto della serie. Detroit con tutta probabilità avrebbe vinto lo stesso quelle finali, ma lo stop alla stella dei gialloviola accelerò il successo degli avversari.
Rapporto con Magic Johnson
Prima del 1988, Isiah Thomas e Magic Johnson erano legati da un’amicizia fraterna, un legame che andava oltre la pallacanestro giocata e che era condiviso anche con un altro atleta Nba, Mark Aguirre.
Il playmaker dei Pistons tentò di “rubare” al direttore d’orchestra dei Lakers i segreti del successo. Era desideroso di imparare, di conoscere i lati oscuri e anche quelli più belli di raggiungere le Finals, di quanto lavoro servisse svolgere per arrivare all’obiettivo finale. Non solo, dato che Isiah, insieme ad Aguirre, sostenne moralmente Earvin dopo la sconfitta di quest’ultimo alle finali 1984, quelle che i gialloviola persero contro i Celtics (la prima in cui Magic affrontò Bird), passando tutta la notte in hotel con l’amico che si sfogava. E addirittura, “Zeke” (come era soprannominato Isiah) aveva la sua stanza personale nella villa di Earvin Jr. Questa situazione idilliaca però iniziò a deteriorarsi con il passare del tempo, soprattutto considerando che Thomas, come detto, si stava avvicinando a grandi passi all’anello con i suoi Pistons.
Il primo fatto che portò Magic a storcere il naso avvenne nel 1987: dopo che Detroit cadde contro i Celtics in gara 7, Rodman e Thomas fecero dei commenti poco carini su Larry Bird. Dissero, in poche parole, che “se Bird fosse stato nero sarebbe stato uno dei tanti”, come si legge nel libro “Il Basket eravamo noi” scritto da Jackie McMullan. Magic condannò le parole di Isiah e decise di parlarne con Zeke in privato, scusandosi nel frattempo anche con quello che ormai era diventato il suo grande amico, Larry Bird.
Il secondo strike si verificò nel 1988, quando Thomas e Johnson si affrontarono per la prima volta alle Finals. I due, come erano soliti fare, si scambiarono un bacio sulla guancia prima di ogni partita, un fatto che destò scalpore con il senno di poi, ovvero quando a Magic fu diagnosticato l’HIV nel 1991. In ogni caso, in quella serie di finale i due si trasformarono in nemici, del resto come giusto che sia: in gara 4 però, stanco di tutte le “botte” sportive subite da Rodman, Magic decise di far sentire anche il suo fisico e rifilò una gomitata a Thomas – la scelta dell’avversario da “stendere” fu casuale. I Lakers poi vinsero quelle Finals e d’estate i due vecchi amici non fecero nessun viaggio insieme, anzi proprio non si parlarono. E Johnson non andò nemmeno a trovare il figlio di Thomas, nato durante i playoff.
Una situazione che degenerò definitivamente nel 1991, proprio quando Magic spiegò al mondo intero di aver contratto l’HIV. Thomas chiese a più riprese all’agente di Johnson, Lon Rosen, se il suo assistito fosse omosessuale: tutte quelle domande fecero pensare Magic, il quale si sentiva tradito da quello che, un tempo, era uno dei suoi migliori amici. Terzo strike e chiusura del rapporto.
Il flash forward ci porta poi al Dream Team 1992, assemblato per le Olimpiadi di Barcellona, successivamente vinte senza difficoltà dalla squadra a stelle e strisce. Isiah Thomas non farà parte di quel roster, anche perché molti dei giocatori non sarebbero stati felici di giocare con lui, uno su tutti Michael Jordan. Quest’ultimo, all’epoca vincitore dei primi due titoli con i Bulls e già all’apice del successo, non aveva ancora digerito un fatto accaduto anni prima, all’All Star Game 1986, quando il playmaker dei Pistons pare avesse tentato di sabotare il prodotto di UNC. Ebbene, nel 1992 MJ puntò i piedi, spiegando che avrebbe accettato la chiamata solo in caso di assenza di Thomas: detto, fatto.
Back to back
Dopo il successo nel 1989, la Detroit di Chuck Daly ripropose la cavalcata di un anno prima e raggiunse nuovamente le Finals nel 1990. I Pistons superarono Indiana, New York e soprattutto Chicago, prima di battere anche i Portland Trail-Blazers di Clyde Drexler, questi ultimi sconfitti per 4-1. Una stagione in cui la leggendaria squadra dei Celtics era ormai tramontata, mentre i Lakers furono battuti dai Suns di Kevin Johnson al secondo turno. Thomas si consacrò come Mvp delle Finals, chiuse a 27.6 punti, 5.2 rimbalzi e 7 assist di media, agguantando così il secondo e ultimo anello della sua carriera, anche perché dall’annata successiva in poi saranno i Bulls a dominare l’Nba.
La chiusa
Nonostante le critiche e i rapporti incrinati con alcuni colleghi, Isiah è stato uno dei più grandi giocatori della National Basketball Association, sicuramente il simbolo dei resilienti Bad Boys degli anni Ottanta. È stato il leader di una Detroit che, grazie a lui e ad un roster di grande talento e di grandi attributi, riuscì a sollevarsi dopo anni difficili, agguantando anche due anelli nell’era Magic-Bird-Jordan, non sicuramente l’epoca più semplice in cui confermarsi. Il playmaker nativo di Chicago non ha mai mollato ed era proprio conosciuto per la caratteristica di lottare sempre, su ogni pallone vagante e nonostante qualsiasi tipo di infortunio.
Si ritirò nel 1994, anche a seguito di un infortunio al tendine d’Achille, dopo aver messo a referto 18.822 punti, 9.061 assist e 1.861 rubate in 979 gare disputate in carriera, tutte con la maglia dei Pistons. Introdotto nella Hall of Fame e nella lista dei migliori 50 giocatori di sempre, si sedette prima sulla panchina dei Pacers (2000-03) e poi su quella dei Knicks (2006-08), senza avere grande successo, oltre che su quella dell’Università della Florida (FIU Panthers) dal 2009 al 2012. E nel 2012 è diventato analista per Nba TV, per poi essere nominato presidente del team WNBA New York Liberty dal 2013 al 2017.