Ha ispirato generazioni intere, è stato l’esempio perfetto in campo, soprattutto per quanto concerne la voglia di competere e l’umiltà nel lavoro quotidiano. Ha vinto cinque titoli, ottenuto diversi premi individuali, tra cui tre Mvp delle Finals, ed è stato membro del leggendario Dream Team, con cui ha agguantato l’oro nel 1992. La sua vita (e non solo) è stata sconvolta dall’HIV a tal punto che si è ritirato ben tre volte: è caduto e si è rialzato, sempre con il sorriso. Earvin Johnson Jr, per tutti Magic, ha scritto la storia, non solo sportiva, vivendo una vita decisamente piena.
Agli albori
La carriera di Magic, nato a Lansing (Michigan) il 14 agosto 1959, partì prima alla Everett High School e poi al college di Michigan State. Il figlio di Earvin Johnson Sr. e Christine Johnson si mise in mostra nei campetti della sua terra natale e ben presto gli venne affibbiato il soprannome di “Magic”. Venne notato da diverse università e prese una decisione importante: scegliere Michigan State, diventando l’idolo di casa. E, appena appresa la notizia, gli abbonamenti per le partite stagionali degli Spartans furono venduti in men che non si dica.
Johnson giocò per Michigan State dal 1977 al 1979, giusto il tempo di vincere, proprio nel 1979, il titolo Ncaa con i suoi Spartans: in quel caso, la “vittima sacrificale” fu la Indiana State di Larry Bird, di cui parleremo nei successivi paragrafi. E chiaramente, una volta raggiunta la vetta per la prima volta, era pronto per il grande passo, ovvero lo sbarco in Nba.
In un periodo in cui gli indici d’ascolto dell’Nba stavano calando a dismisura, Magic venne scelto dai Lakers con la pick numero 1 al Draft 1979. Per la verità, la chiamata avvenne dopo una serie di circostanze particolari. I New Orleans Jazz avevano infatti ceduto tre prime scelte ai Lakers (tra cui quella del 1979) in cambio di Gail Goodrich: la Los Angeles del proprietario Jack Kent Cooke (che di lì a poco sarà “sostituito” da Jerry Buss) aveva anche pensato di ridare indietro le scelte per firmare l’ala grande Sidney Wick, ma i Jazz rifiutarono e così LA mantenne la chiamata. All’epoca, Bulls e Lakers decisero per testa o croce e a vincere furono i gialloviola, il cui successo nel lancio della monetina permise di accaparrarsi il talento di Magic Johnson. Cominciò così, e con la firma di un contratto parecchio ricco (ma meno oneroso rispetto a quello di Bird ai Celtics), l’avventura di Ervin Jr. ai Lakers.
Il sorriso e il suo modo di giocare
206 centimetri per 100 chili. “Era una guardia di due metri e sei che andava da solo in contropiede. Non avevo mai visto nulla del genere”, raccontò la sua nemesi Larry Bird. Magic – soprannome che gli venne dato, quando aveva 15 anni, da un giovane giornalista del Lansing State Journal, Fred Stabley – era un playmaker che non si era mai visto e che, con tutta probabilità, difficilmente si potrà rivedere. Il suo obiettivo era semplice: passare il pallone, dando nel frattempo spettacolo e sorridendo a chiunque incrociasse il suo sguardo. Il suo mixtape (highlights delle sue migliori giocate) è uno dei più elettrizzanti di sempre.
Cade, recupera la palla e, da terra, regala un assist al compagno. Si libera del difensore facendo girare la palla dietro la schiena e serve il compagno libero sulla destra per i due punti. No-look (specialità della casa) e schiacciata di Kareem. Rimbalzo, corre tutto il campo e schiaccia. Insomma, un repertorio clamorosamente vasto, che lo ha reso una delle leggende gialloviola. “A tenere tutto insieme sarebbe stato il suo sorriso, che nel 1996 Sport Illustrated avrebbe definito uno dei due più belli del ventunesimo secolo. L’altro? Quello di Louis Armstrong”, ha scritto Roland Lazenby nel suo libro “Magic Johnson, la vita”. Un sorriso di cui la città degli angeli aveva estremamente bisogno per risollevare la pallacanestro e, più in generale, l’Nba. Un Magic che, per tutti gli anni Ottanta, condusse lo “Showtime” a Los Angeles, in campo e fuori.
Un avvio con i fiocchi
Appena entrato nella lega, Magic spiazzò tutto con il modo di giocare sopradescritto. E anche lo stesso allenatore dei Lakers, Paul Westhead – che, dopo una manciata di partite, sostituì alla sua guida dei gialloviola Jack McKinney, il quale cadde dalla bicicletta e si procurò un trauma alla testa che lo tenne fuori per diverso tempo – era indeciso sul ruolo che Johnson avrebbe dovuto avere in squadra. Point-guard titolare al posto di Norm Nixon oppure ala grande? Alla fine, Magic agì in entrambi gli spot, spesso alternandosi con il suo compagno di squadra. E soprattutto, i Lakers volarono alle Nba Finals 1980, le prime ovviamente per il rookie Magic. Con LA sopra 3-2 nella serie contro i 76ers di “Doctor J”, Kareem Abdul-Jabbar (il migliore dei gialloviola fino a quel momento), si procurò una distorsione alla caviglia nel quinto atto della serie e fu costretto a guardare gara 6 da casa. Una partita in cui fu Magic a prendere il controllo, oltre a sostituire lo stesso Kareem nel migliore dei modi. Sulla carta Johnson giocò come all-around, spaziando un po’ in tutti i ruoli (compreso quello di centro) e non dando punti di riferimento agli avversari. I Lakers vinsero quella partita (123-103) e Magic chiuse con 42 punti, 15 rimbalzi, 7 assist e 3 rubate, oltre ad agguantare anche l’Mvp delle Finals – che, probabilmente, sarebbe dovuto spettare allo stesso Abdul-Jabbar.
I successivi quattro anelli
La franchigia di Jerry Buss aveva appena aperto un ciclo che si rivelerà vincente. Dopo un anno di purgatorio (1981), i Lakers tornarono alle Nba Finals nelle successive quattro occasioni. La prima nel 1982, ancora contro Philadelphia: all’inizio della stagione, un terremoto portò all’esonero di coach Westhead (si diceva che Magic ne sarebbe stata la causa), anche se poi, con Pat Riley in panchina, Los Angeles riprese a volare e conquistò l’anello ai danni dei 76ers – neanche a farlo apposta, Ervin Jr. fu di nuovo Mvp delle finali.
Nel 1983 Philadelphia rispose con la stessa moneta, con Moses Malone che dominò Kareem in finale. E alle Finals 1984 saranno i Celtics di Larry Bird ad imporsi ai danni dei Lakers, in una serie che si concluse solo in gara 7. L’anno successo però, i gialloviola si vendicarono: dopo aver perso malamente il primo atto della serie (148-114), LA ritrovò il proprio gioco e vinse anche gara 6 al TD Garden, un’impresa che valse il terzo anello per Magic e i gialloviola. Altra finale, nel 1987, e altra vittoria dei gialloviola di Pat Riley (4-2 ancora contro i Celtics), che replicarono il successo anche nel 1988 ai danni dei Pistons (4-3), quinto e ultimo titolo dell’era Magic.
Il percorso dei gialloviola si concluse con altre due sconfitte al grande ballo. La prima nel 1989, quando ad imporsi furono proprio i Pistons di Isiah Thomas, prima che Kareem ufficializzasse il suo ritiro e Pat Riley lasciasse la panchina dei Lakers (affidata a Mike Dunleavy). La seconda sconfitta giunse alle Finals 1991: in quel caso, i Bulls si presero lo scettro di campioni e soprattutto ci fu una sorta di passaggio di consegne, con Michael Jordan che salì sul trono che, per tutti gli anni Ottanta, era stato di Magic.
Magic e Larry
Due personalità tanto lontane quanto vicine tra loro. Johnson sempre sorridente, socievole e un gran chiacchierone, Bird chiuso in sé stesso e ragazzo di poche parole. Il primo di Michigan State e poi giocatore dei Lakers, il secondo di Indiana State e successivamente ala dei Celtics. Eppure, pur essendo due nemici in campo, Magic e Larry legarono parecchio a tal punto che il loro legame divenne indissolubile.
Il loro primo incontro non avvenne nella finalissima del torneo Ncaa, ma un anno prima, nel 1978. Prima che avversari, furono compagni di squadra: giocarono, da riserve, in una competizione internazionale, il WIT, acronimo di World Invitational Tournament – un torneo che prevedeva che i migliori giocatori del college disputassero tre partite contro URSS, Cuba e Jugoslavia. Riserve? Avete capito bene. Questo perché il coach di quel team, Joe B. Hall, era anche l’allenatore dei Kentucky Wildcats, squadra che aveva appena vinto il titolo Ncaa. Hall faceva dunque giocare la maggior parte dei minuti ai suoi “fedeli”, ovvero Jack Givens, Rick Robey, Kyle Macy, James Lee e Jay Shidler, lasciando solo le briciole al duo Magic-Bird, per quanto questi ultimi dispensassero già pallacanestro all’epoca.
I due poi si affrontarono nella finale Ncaa 1979, una delle più seguite di sempre. Michigan State contro Indiana State, Magic contro Bird, questa volta da avversari. Saranno gli Spartans, più completi a livello di roster e con più armi a disposizione, a vincere quella partita con il punteggio di 75-64 e senza grosse difficoltà. Anche perché Bird steccò, pur chiudendo in doppia-doppia (19 punti e 13 rimbalzi, ma con qualche tiro libero sbagliato di troppo e 7/21 dal campo). Le copertine, dunque, furono tutte per Magic, miglior giocatore della competizione e autore di 24 punti, conditi da 7 rimbalzi e 5 assist.
Come detto, Magic e Larry si ritroveranno l’uno contro l’altro alle Finals Nba nel 1984: a differenza del primo atto (la finale Ncaa 1979), questa volta Larry Bird risultò Mvp della finalissima e i Celtics la spuntarono in gara 7. La sfida si ripeté nel 1985 a parti invertite (dato che questa volta sarà Magic ad agguantare gara 6 al TD Garden e successivo anello) e anche nel 1987, quando furono ancora i Lakers a battere in finale i Celtics con Magic eletto Mvp delle Finals. In particolare, in quest’ultimo scontro, Johnson risultò clutch in gara 4 segnando un mini-gancio cielo alla Jabbar, che consegnò il successo ai suoi (anche perché Bird, nell’ultimo possesso, sbagliò la tripla). I due si resero dunque protagonisti della faida cestistica probabilmente più famosa di sempre, pur coltivando la loro amicizia al di fuori del parquet.
L’HIV e il primo ritiro
Il 1991 è ricordato come l’anno in cui Magic scoprì di aver contratto l’HIV, una malattia trasmessa dalle centinaia di rapporti non protetti con diverse donne. Johnson, giocatore di punta dell’Nba, era dovuto tornare a Los Angeles in fretta e furia, dopo aver ricevuto una chiamata dal dottor Michael Mellman mentre si trovava a Sal Lake City per un’amichevole prestagionale dei suoi Lakers.
Tornò ad L.A. e capì, prima ancora che il medico dei Lakers parlasse, che si trattasse di sieropositività. A quei tempi si sapeva ben poco dell’HIV e dunque si pensava che a Magic sarebbe rimasto poco tempo da vivere. Innanzitutto, Earving Jr. avrebbe dovuto comunicare l’accaduto a sua moglie, Cookie Kelly, quest’ultima in dolce attesa. “A quei tempi pensavo che la cosa più difficile fosse giocare contro Jordan o Bird. In realtà, fu tornare a casa per dire a mia moglie che ero sieropositivo”, disse Magic in un’intervista del 2005 in televisione. Ebbene, sua moglie iniziò a piangere, soprattutto per il fatto che non sapeva se fosse infetta o meno, o se lo fosse anche il bambino che aspettava – per fortuna nessuno dei due aveva contratto il virus.
Quell’evento sconvolse la vita di Magic che, neanche a dirlo, dovette lasciare la pallacanestro giocata, come spiegò nella conferenza stampa indetta a novembre e trasmessa in diretta dalla Cnn e Espn. Un ritiro forzato che destò parecchio scalpore, ma che portò Johnson a creare la Magic Johnson Foundation, nata contro la diffusione dell’Aids.
L’epilogo
Johnson tornerà per l’All Star Game 1992, che si tenne ad Orlando, una delle edizioni più famose di sempre e non sicuramente per la partita in sé. Il playmaker ex Lakers chiuse con 25 punti e 9 assist, neanche a dirlo Mvp della serata. Partecipò anche alle Olimpiadi con il Dream Team e, all’inizio dell’annata 1992-93, indossò nuovamente la maglia dei gialloviola per il training camp. Sembrava potesse riprendere a giocare, invece ecco il secondo ritiro dalla pallacanestro. Smise a 33 anni, età in cui, probabilmente, avrebbe potuto ancora dire la sua. Ritornerà a gennaio 1996, conducendo i Lakers ai playoff, salvo cadere al primo turno contro i Rockets di Olajuwon e, a quel punto, dire definitivamente addio al basket.
Nel mezzo, tra il 1993 e il 1996, Magic ricoprì anche l’incarico di capo allenatore dei gialloviola nel 1994, anche se la squadra non si qualificò alla post-season. Inoltre, nel 1993 Johnson creò un team di ex atleti Nba per affrontare alcuni club professionistici in giro per il mondo: Venezuela, Australia, Nuova Zelanda e, più in generale, Europa e Asia furono le tappe di un percorso in cui lui e alcune leggende come Michael Cooper, Bob McAdoo, Kurt Rambis, ma anche Moses Malone e Ralph Sampson sfidarono e dominarono i club sopracitati. E addirittura, la storia vuole che Pat Riley rivolesse con sé Magic, ma ai Knicks. Una trattativa che avrebbe permesso a New York di diventare una contender, anche se il proprietario dei Lakers Jerry Buss, come prevedibile, si oppose.
Inutile dire che è stato inserito nella Basketball Hall of Fame, oltre che tra i 50 giocatori migliori dell’Nba. Non bisogna però dimenticare anche il suo spirito da imprenditore, che lo ha portato a creare la Magic Johnson Enterprises (1987), possedendo diverse attività commerciali negli Stati Uniti. Un fiuto per gli affari che “ereditò” dal suo grande amico, nonché proprietario dei Lakers dal 1979 al 2013 (anno della sua dipartita), Jerry Buss.