Se cercate nel vocabolario una parola per descrivere Shaquille O’Neal, ne troverete diverse: attore, rapper, opinionista, imprenditore, ma soprattutto ex cestista e leggenda Nba. L’ultima definizione è quella decisamente più calzante per descrivere uno dei migliori centri che la National Basketball Association abbia conosciuto nel corso della propria storia: quattro titoli e uno strapotere fisico (216 centimetri per circa 150 chili) che in pochi possono vantare di avere avuto, il tutto condito da un mix di gioia e simpatia sia dentro che fuori dal campo.
I primi passi
Il 6 marzo 1972 Lucille O’Neal e Joe Toney diedero alla luce il piccolo Shaquille, il quale poi prenderà il cognome della madre. Questo perché Toney è assente (problemi di tossicodipendenza e con la legge) e il suo posto di “padre” venne preso dal sergente Phillip Arthur Harrison. La famiglia, composta dunque da Lucille, Shaq e Philip, è costretta a spostarsi molto, a causa del lavoro del sergente: nel momento in cui si stabilirono a San Antonio in Texas, Shaquille si iscrisse alla Robert G. Cole High School, che frequentò dal 1987 al 1989. Era già particolarmente strutturato e fisicato, per cui si aggiunse alla squadra di pallacanestro della scuola: furono due anni di grandi successi, che portarono lui e i suoi compagni a perdere solo due partite in due stagioni.
Il suo gioco e la sua prestanza fisica furono notati da diverse università e Shaq decise di scegliere LSU, ovvero la Louisiana State University. Al primo anno giocò con Chris Jackson (diventato poi Mahmoud Abdul-Rauf), con quest’ultimo che, nella seconda stagione, passò ad O’Neal lo scettro di punta di diamante del gruppo. Un ruolo che il lungo nativo di Newark accettò di buon grado, tanto da essere eletto come miglior giocatore dell’Ncaa, per quanto Louisiana non riuscì a qualificarsi alle Final Four. Un ultimo anno (con laurea in Business Administration) e poi i Magic, al Draft 1992, lo scelsero con la prima chiamata assoluta. Il suo viaggio in Nba era appena cominciato.
Il mondo dei grandi
O’Neal raggiunse la doppia doppia di media già al primo anno nella massima lega cestistica americana (23.9 punti e 13.9 rimbalzi di media, oltre a 3.5 stoppate), agguantando anche il premio di Rookie of The Year. Una prima stagione che si concluse senza playoff per i Magic, i quali però pescarono ancora un altro talento nel 1993: Chris Webber, scelto con la pick 1 al Draft, venne scambiato ai Golden State per Anfernee “Penny” Hardaway, con quest’ultimo che formerà una grande coppia con O’Neal. I Magic furono eliminati dai playoff 1994 al primo turno, ma già nel 1995, dopo aver battuto Celtics, Bulls e Pacers, agguantarono le Nba Finals per la prima volta nella storia della franchigia. Shaq chiuse a quota 28 punti, 12.3 rimbalzi e 6.3 assist una serie che, purtroppo per Orlando, venne dominata dai Rockets (4-0) di uno straordinario Olajuwon (32.8 punti ad allacciata di scarpa). Il finale per i Magic fu amarissimo, nonostante una stagione di grande spessore.
Da Orlando a Los Angeles
La sua carriera svoltò improvvisamente nell’estate 1996. 121 milioni per 7 anni è il contratto che l’allora Executive dei Lakers Jerry West mise sul piatto ad O’Neal: i Magic decisero di non offrire una simil cifra a Shaq, il quale dunque perfezionò il suo passaggio a LA, sponda Lakers. Dopo tre stagioni di assestamento (gialloviola eliminati ai playoff da Utah per due anni di fila e poi da San Antonio), la coppia Shaq-Kobe iniziò a brillare con l’arrivo in panchina di coach Phil Jackson. Siamo nell’estate 1999 e il “maestro Zen” aveva già vinto sei anelli da capo allenatore dei Bulls, per cui l’obiettivo, visti i campioni presenti nel roster dei gialloviola (tra cui anche Fisher, Fox, Horry, Rice e tanti altri), era di confermarsi a quel livello.
Jackson, O’Neal e Bryant guidarono i Lakers ad un clamoroso three-peat, ovvero tre anelli consecutivi vinti tra il 2000 e il 2002. A capitolare nel 2000 furono i Pacers di Reggie Miller (4-2), nel 2001 i 76ers di Allen Iverson (4-1) e nel 2002 i New Jersey Nets di Jason Kidd (4-0). Di queste tre annate, la più vincente risultò sicuramente quella 2001-2002, in cui i Lakers persero solo una gara in tutta la post-season, a fronte di 15 successi. I numeri di “The Big Diesel”, come veniva soprannominato Shaq, erano da vera fantascienza: 30.7 punti, 15.4 punti rimbalzi e 2.4 stoppate di media ai playoff del 2000; 30.4 punti, 15.4 rimbalzi e 2.4 stoppate ai playoff del 2001; 28.5 punti, 12.6 rimbalzi e 2.5 stoppate in quelli del 2002. Non a caso, verrà nominato Mvp delle Finals per tre stagioni consecutive.
Per altro, il 6 marzo 2000 Shaq raggiunse il massimo di punti nella sua carriera realizzati in una singola partita: 61 contro i Clippers nel nuovissimo Staples Center. Il motivo? Pare dovesse essere una giornata tranquilla, ma i Clippers negarono ad O’Neal la possibilità di avere degli accrediti per famigliari e amici e dunque The Big Diesel la prese sul personale, pagando i biglietti e distruggendo gli avversari sul parquet.
Il rapporto incrinato con Bryant e lo sbarco a Miami
La differenza di mentalità tra il compianto Kobe e Shaq era evidente. Il “Black Mamba” infatti si lamentò più volte del fatto che O’Neal si allenasse troppo poco e che si preoccupasse più di ciò che succedesse al di fuori del campo da basket piuttosto che dell’aspetto cestistico. Il lungo dei Lakers era però sempre stato al centro del gioco gialloviola e Bryant non era così felice di essere, da un certo punto di vista, il secondo violino, a tal punto che tra i due nacque una sorta di “faida” interna, che coinvolse anche i giornalisti.
Nel suo libro “Eleven Rings” coach Phil Jackson descrisse le loro due personalità, lui che ebbe parecchio lavoro per gestire la squadra. “Shaq era un ragazzone generoso che amava divertirsi, decisamente più interessato a farti ridere con le sue battute piuttosto che vincere il titolo di capocannoniere. Non riusciva a capire perché Kobe volesse sempre rendere tutto così difficile (…) Kobe, dall’altra parte, era freddo, introverso e sapeva essere sarcastico in modo pungente. Pur avendo sei anni in meno di Shaq sembrava più vecchio e più maturo”. E se chiedete a Jackson chi avrebbe tenuto tra i due per costruire un nuovo team, lui avrebbe risposto O’Neal, un pensiero totalmente opposto rispetto a quello del proprietario all’epoca dei Lakers, il Dr. Buss.
In tutto questo, i Lakers caddero alle Western Conference Semifinals 2003 e soprattutto alle Finals nel 2004 (contro i Pistons): la soluzione era semplice, uno tra Shaq e Kobe avrebbe dovuto lasciare la squadra – sembravano ormai lontani i tempi in cui Bryant alzava il pallone in alley-oop per la schiacciata di O’Neal in gara 7 contro i Blazers ai playoff del 2000.
A trasferirsi sarà lo stesso O’Neal (via anche coach Jackson), scambiato a Miami in cambio di Odom, Butler e Grant (più una scelta). Si creò dunque una nuova coppia: Shaquille O’Neal e Dwayne Wade. Nella prima stagione insieme, Miami ottenne il primo posto nella Southeast Division con 59 vittorie e sole 23 sconfitte. E fu proprio a Natale (2004) che The Big Diesel tornò allo Staples Center affrontando il suo passato: un piccolo saluto prima della palla a due con Kobe e poi giunse lo spettacolo. Shaq dominò i tabelloni (24 punti e 11 rimbalzi) e Bryant, autore di 42 punti, sbagliò la tripla della vittoria all’overtime, consegnando al suo rivale la gioia del successo.
Miami verrà eliminata ai playoff 2005 dai Pistons, ma nella stagione successiva si vendicò di Detroit, sconfitta alle Eastern Conference Finals 2006 per 4-2. Nella finalissima gli Heat affrontarono i favoriti Mavericks e qui entrò in gioco probabilmente il miglior Dwayne Wade della storia che, di fatto, consegnò ai suoi la vittoria nella serie e il titolo, nonostante una partenza ad handicap (0-2 per Dallas, poi ribaltato). Shaq concluse in doppia-doppia di media (13.7 punti e 10.2 rimbalzi): aveva promesso un anello a Pat Riley e a tutta la franchigia e ci riuscì.
I sussulti finali
Miami, a causa anche dei numerosi infortuni, non fu in grado di confermarsi e, nel 2008, O’Neal si allontanò dalla Florida. Gli Heat si accordarono con i Suns, i quali cedettero Shawn Marion e Marcus Banks in cambio di Shaq. A Phoenix non trovò gloria e allora si spostò prima a Cleveland al fianco di Lebron James (2009) e poi a Boston al fianco dei Big Three (2010), ma in entrambe le occasioni il suo contributo non sarà più quello di una volta. Finché nell’estate 2011 annunciò il ritiro dalla pallacanestro giocata attraverso un Tweet. “Ce l’abbiamo fatta. 19 anni, baby. Ti ringrazio, per questo te lo dico per primo. Vado in pensione. Ti amo. Arrivederci”.
Oltre il parquet
Quattro anelli, un oro mondiale (1994) e uno olimpico (Atlanta 1996): è questo il bottino cestistico con cui Shaquille O’Neal si è congedato dal basket, oltre a 28596 punti,13099 rimbalzi e 2732 stoppate totali. Unico neo? I tiri liberi, a tal punto che venne inventato l’Hack-a-Shaq, un modo per mandarlo in lunetta e speculare sulle sue cattive percentuali a cronometro fermo.
Ma The Big Diesel non si limitò a questo. Oltre ad essere uno dei conduttori più celebri del programma Inside The Nba, trasmesso da TNT e in cui approfondisce argomenti riferiti al mondo Nba insieme a Charles Barkley e Kenny Smith (tenendo anche la rubrica Shaqtin’a Fool), O’Neal è uno degli atleti più ricchi del pianeta e non solo per ciò che ha guadagnato con la pallacanestro. È diventato anche un vero e proprio imprenditore, anche grazie al Master in Business Administration and Management concluso nel 2006 all’Università di Phoenix. Possiede attualmente diversi fast food, ristoranti, autolavaggi, centri benessere e dunque ha investito i propri soldi nel modo migliore possibile. Ha anche partecipato ad alcune puntate della WWE e della AEW, ha prodotto cinque album musicali in studio e, in alcuni eventi, si è divertito anche come DJ (DJ Diesel naturalmente), senza dimenticare la sua carriera da attore.
Ci sono chiaramente anche dei lati oscuri nella sua vita, descritti da lui stesso nel documentario SHAQ, andato in onda sulla HBO. O’Neal ha alcuni rimpianti, come il fatto di non essere stato un buon padre e un buon marito, oppure ancora è rimasto scioccato dalla morte della sorella e di Kobe (con cui fece pace definitivamente nel 2018 in un’intervista faccia a faccia), avvenute nel giro di quattro mesi l’una dall’altra. Un altro rimpianto? Avrebbe voluto chiamare di più il compianto Bryant. “A volte realizzo che non vedrò mai più Kobe, di persona, per il resto della mia vita – aveva rivelato in un’intervista alla rivista People – E penso che avrei dovuto chiamarlo di più, che avremmo dovuto sentirci più spesso. Invece io ho da fare, lui aveva da fare e allora lasci perdere dicendo: ‘Lo vedrò quando capita’, tanto c’è tempo. Pensavo ci saremmo visti al 50° anniversario dei Lakers, o che saremmo diventati vecchi assieme. E invece ora realizzo che non è così“.
Inserito infine nella Basketball Hall of Fame (2016) e tra i 75 atleti migliori di sempre dell’Nba, Shaq ha finanziato anche il funerale di un’altra leggenda della pallacanestro americana, George Mikan. Shaquille Rashaun O’Neal, il gigante buono che dominò l’Nba a cavallo tra il ventesimo e ventunesimo secolo.