Per definire la grandezza di un campione o una campionessa di tennis, si usa contare i trofei vinti e i record eventualmente battuti. Ciò vale anche per Steffi Graf, ma trofei e record – con i quali comunque la tedesca zittirebbe chiunque – da soli non bastano.
Steffi Graf, la donna dei record impossibili
Qualche giorno fa, parlando della sua grande rivale Monica Seles, mi azzardavo a definire Steffi Graf una tennista “meravigliosamente incompleta”. Così è, senza troppo girarci intorno, perché Steffi ha impostato tutta la sua carriera su un dritto implacabile, arma letale contro quasi tutte le avversarie. Grazie a quello, a un buon servizio e a ottime capacità di spostamento, Graf è arrivata dove nessun tennista – uomo o donna che sia – era mai arrivato prima. E, se non si fosse ritirata a un’età ancora relativamente giovane, i suoi record sarebbero ancora di più e più incredibili.
Con 22 prove del Grande Slam vinte, Steffi Graf era al tempo la tennista più vincente di sempre, prima di venire spodestata da Serena Williams che è arrivata a 23. Come numero assoluto di Slam, davanti a tutti c’è sempre l’australiana Margaret Court con 24, ma 13 di questi erano arrivati prima dell’Era Open.
Di certo, però, ci sono due record totalmente assurdi, perché sono di quei primati che possono soltanto venire eguagliati, non battuti.
Oltre ad essere l’unica tennista (uomo o donna) capace di realizzare il Grande Slam negli ultimi 55 anni, Steffi Graf è andata oltre, dove mai nessun essere umano si era mai spinto, né lo ha mai più fatto. Nel 1988, oltre a vincere Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e US Open, Graf vinse anche la medaglia d’oro olimpica nel singolare femminile, realizzando il cosiddetto GOLDEN SLAM.
C’è un altro record che fotografa come Steffi non avesse praticamente rivali, negli anni del suo dominio. Sempre in quell’incredibile 1988, Steffi Graf vinse la finale del Roland Garros contro la povera Natasha Zvereva, infliggendole un umiliante 6-0 6-0. Si tratta del punteggio più netto nella storia di una prova del Grande Slam, un primato che per ovvie ragioni non si può battere ma soltanto – al massimo – eguagliare. Inoltre, quella partita è passata alla storia anche per la sua durata: con appena 34 minuti (di cui 2 trascorsi in una breve interruzione per pioggia), si tratta della finale più breve nella storia, mentre il 6-0 6-0 eguagliava quanto accaduto nella finale di Wimbledon 2011, quando Dorothea Lambert Chambers non aveva lasciato nemmeno un game a Dora Boothby.
Steffi Graf riempiva un vuoto
Proprio questo record ci permette di inquadrare un po’ meglio il tipo di dominio esercitato da Steffi Graf sulle avversarie del suo tempo. Quando vinse il suo primo torneo del Grande Slam, il Roland Garros 1987, Steffi doveva ancora compiere 18 anni. Il suo arrivo esattamente al tramonto della lunga rivalità tra Martina Navratilova e Chris Evert era davvero perfetto come timing, anche perché nessuna delle rivali aveva talento e personalità sufficienti per reggere l’onda d’urto della giovane teutonica.
Lo sciagurato attentato di un suo fan con evidenti problemi mentali, Günter Parche, tolse praticamente di mezzo l’unica tennista che non solo ne aveva messo in discussione il dominio, ma l’aveva letteralmente spodestata.
Così Steffi, che prima dell’attentato a Seles aveva vinto 11 Slam, ne vinse altrettanti con relativa semplicità. Le varie Arantxa Sanchez, Conchita Martinez, Gabriela Sabatini, Jana Novotna, Anke Huber, mancavano chi di potenza, chi di adattabilità a tutte le superfici, chi di personalità sufficienti per tenere il passo di della tedesca.
Steffi l’introversa, il confronto con Seles e il rapporto con papà Peter
Uno degli aspetti che rendevano così bella la rivalità – purtroppo durata relativamente poco – tra Monica Seles e Steffi Graf – era l’enorme differenza di carattere tra le due.
Entrambe figlie di padri ingombranti, Graf era stata iperprotetta da papà Peter, che le aveva messo una racchetta in mano a 3 anni e l’aveva condotta a essere prima stradominatrice a livello giovanile su avversarie pure ben più grandi, poi capace di fare altrettanto nel circuito WTA vero e proprio. Ripercorrerne i primi passi aiuta sicuramente a capirne il carattere.
Nata a Mannheim (nell’allora Germania Ovest) il 14 giugno 1969, Steffi venne introdotta al tennis da papà Peter, presenza fissa della prima parte della sua vita tennistica e comunque influente su tutta la sua carriera. Peter era un aspirante allenatore che applicò sulla figlia metodi anche piuttosto estremi o comunque discutibili, come costringerla a colpire la palla almeno 50 volte prima di guadagnarsi una ricompensa, fosse anche una merenda.
Oltre a ciò, papà Peter tenne Steffi in una sorta di campana di vetro, rendendo molto difficile la sua vita relazionale all’esordio nel circuito. Nei primi anni di carriera, Steffi non aveva amiche, non presenziava agli eventi mondani, era concentrata al 110% soltanto sul campo e sugli allenamenti.
Tutto ciò incise profondamente sulla personalità e sull’immagine pubblica di Steffi, che appariva sempre questa campionessa triste, con quell’espressione un po’ malinconica di chi, potendo scegliere, avrebbe voluto essere altrove.
Le cose cambiarono un po’ con il passare degli anni e Steffi che assume degli allenatori veri e propri, da Pavel Složil ad Heinz Günthardt, lasciando al padre un ruolo più da supervisione. Le vicende personali di Peter (prima un presunto scandalo a luci rosse poi un’inchiesta per evasione fiscale) causarono un progressivo distacco di papà dall’immagine pubblica della figlia. Proprio dal 1995 in avanti, quando Graf senior conobbe anche la galera per evasione fiscale, Steffi iniziò ad aprirsi un po’ anche a livello relazionale. Qualche anno dopo conobbe André Agassi, che poi sposerà nel 2001.
Steffi come Andre, l’obbligo di essere campioni
Forse non è azzardato dire che Steffi Graf si è “liberata” del tutto dopo aver smesso di giocare. Del resto, quella incessante ossessione di diventare una campionessa l’aveva accompagnata fin dalla tenerissima età, come era accaduto anche a colui che è diventato il suo compagno di vita. Forse anche lei, come Agassi ha ammesso a chiare lettere nel suo libro “Open”, ha a volte odiato il tennis, nonostante si trattasse di un gioco che le ha portato fama, soldi, successo, soddisfazioni, che però un genitore prevaricante aveva trasformato in qualcosa che somigliava molto più a una prigione.